Che cos’è l’avanguardia? Intervista a Pilippe Forest

Cento anni dalla nascita del surrealismo

Intervista a Pilippe Forest di Gabriella Bosco

Il surrealismo ha compiuto cent’anni. Per l’occasione, mentre le mostre e i convegni più vari sono stati organizzati in Francia come in Italia, Gallimard ha ripubblicato nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade i Manifesti (André Breton, Manifestes du surréalisme, préface de Philippe Forest, pp. 1136, € 65, Gallimard, Paris 2024), insieme a una serie di testi fondamentali per il divenire del movimento. Alcuni dei quali sono particolarmente sorprendenti e gustosi, riletti oggi. Nuovissimi, come lo erano un secolo fa, e allo stesso tempo molto antichi, come se il tempo passato fosse molto di più.

La novità principale rispetto alle edizioni precedenti è la Prefazione del volume, che Antoine Gallimard ha affidato a uno degli scrittori francesi attuali più adatti a esprimersi sul concetto di avanguardia: Philippe Forest, che si è fatto le ossa studiando i movimenti che del surrealismo sono figli, primo tra tutti Tel Quel, il gruppo fondato da Philippe Sollers, colui che fu salutato ai suoi esordi nientemeno che dal surrealista Louis Aragon e da François Mauriac.

Les Manifestes du surréalisme escono dunque in Francia mentre da noi arriva in libreria il volume di Forest intitolato Il romanzo, il reale e altri saggi (trad. dal francese di Gabriella Bosco, pp. 227, € 19, Rosenberg & Sellier, Torino 2024), ovvero una raccolta di scritti teorici, densissimi di rimandi alle avanguardie e al concetto di modernità così come i surrealisti – e Forest – lo intendono. Durante la prima presentazione italiana, a Napoli, di questa raccolta di saggi, Forest si è concesso a una chiacchierata per fare il punto proprio su questo: la modernità del surrealismo.

La sua Prefazione comincia constatando come il movimento di Breton “ai nostri occhi di oggi, sembri molto più vecchio e allo stesso tempo più giovane” dei cento anni che compie. E poi, ricorrendo a una delle immagini poetiche più famose dello stesso Breton, scrive che il surrealismo “ha i capelli bianchi come quelli di un revolver invernale quando sul mondo, con ogni mattino che arriva, nuovamente e come fosse il primo, spande la perpetua e primaverile freschezza di una rugiada dalla testa di gatta”. In che senso va intesa questa doppiezza di età?

Nel senso che ha per chiunque voglia portare un rinnovamento rivoluzionario. Gli immediati predecessori vengono respinti, guardando al futuro, ma all’uccisione dei padri si combina quasi sempre il recupero dei nonni. Così se Breton e i suoi amici sparano con il loro revolver a inchiostro sugli scrittori di fine Ottocento e primo Novecento, ne recuperano altri lontani, indicando origini profonde. Dante, Shakespeare, l’arte magica, quella primitiva. Uno ieri immemoriale. Che unisce vertiginosamente le maschere eschimesi e le bambole hopi, i feticci della Nuova Guinea e gli affreschi di Lascaux, i quadri simbolisti o cubisti, Gustave Moreau e Paul Gauguin, o Pablo Picasso. Come scrive Breton nel 1957, il surrealismo non è altro che la Magia ritrovata.

Il y aura une fois, ci sarà una volta, è insomma la parola d’ordine di Breton.

Con il Rimbaud della Stagione in inferno, per Breton “bisogna essere assolutamente moderni”, e con l’Isidore Ducasse delle Poesie (ovvero il Conte di Lautréamont con il suo vero nome), “niente è detto”, rovesciamento del celebre incipit dei Caratteri di Jean de La Bruyère. Niente è mai stato detto in maniera definitiva, va sempre ripreso e ridetto, in maniera diversa, nuova. Per Breton, per i surrealisti, le fiabe si dicono al futuro, quel futuro i cui riflessi tremanti fanno il valore di ogni opera d’arte. Il poeta non deve piangere alla maniera di François Villon sulle neiges d’antan, o chiedersi che ne sia stato e dove sono finite, ma deve cantare e cercare le nevi di domani, nel cui biancore luccica – con le parole di Breton ­– l’oro del tempo.

L’imperfetto è un tempo verbale dal nome molto triste… Detto questo, come si spiega tanta violenza verbale contro scrittori come Anatole France o Maurice Barrès? L’attacco che rivolsero loro ad esempio con l’opuscolo intitolato Un cadavere messo in circolazione proprio nel 1924, subito dopo i funerali di Anatole France, fu clamoroso.

Per i surrealisti Anatole France rappresentava l’ufficialità, la Francia… Il nome stesso che portava non era d’aiuto! Non sono certo che lo abbiano veramente letto.

Oggi cosa pensano gli scrittori di Anatole France, passato il tempo delle provocazioni?

Devo essere sincero, neanche io ho lo conosco. Barrès invece l’ho letto molto. Ma quel genere di intransigenze è tipico di giovani che stanno ancora cercando la loro strada, la spiego così. Per quel che riguarda Anatole France sicuramente il fatto essenziale è la sua francesità. Anche Rimbaud che pure è favorevole ai parigini per via della Comune, odia tutto ciò che è francese. Su Barrès la cosa è più ambigua. Aragon lo apprezzava, l’opposizione a lui è più contraddittoria.

Poi fu lo stesso Breton a far la fine del cadavere, in un pamphlet questa volta rivolto contro di lui da certi suoi precedenti compagni di strada, dopo l’uscita del Secondo Manifesto.

È la storia dell’arroseur arrosé, non so se in italiano usate l’espressione… Ma io sono molto lontano da questo tipo di temperamento, il gusto per la polemica, gli insulti ignobili… E allo stesso tempo penso che siano cose che non vadano prese troppo sul serio, sono da attribuire alla giovane età e anche a un certo gusto per il gioco.

Tornando invece alle cose serie, per Philippe Forest qual è il lascito del surrealismo?

Penso che ci sia una continuità tra i movimenti cosiddetti di avanguardia, dall’avanguardia romantica a quella surrealista ai movimenti degli anni sessanta e settanta, del Novecento, ma si può risalire anche più indietro, ai poeti della Pléiade. Per tutti si è trattato di opporsi alla letteratura che si faceva intorno a loro, atteggiamento nel quale un po’ mi riconosco. Breton è contro un certo realismo…

Da San Tommaso ad Anatole France, scriveva.

Sì, e allo stesso tempo Breton è molto contrario a Proust, che pure è lo scrittore geniale che ben sappiamo, e assolutamente non realista nel senso che Breton odiava, ma tutto quello che è psicologia, sociologia, petites histoires, Breton lo detesta. Quello che Paul Valéry riassume nell’espressione la marchesa uscì alle cinque. Il romanzo dell’epoca che non lasciava spazio al meraviglioso, e che a me pare possa essere comparato a buona parte del romanzo odierno, neonaturalistico. L’appello al meraviglioso di Breton, anche per me che sono piuttosto razionalista, è fondamentale: è quello che permette di produrre una letteratura vera. Uno dei suoi testi che trovo migliori è Arcane 17, in questo senso.

Nella raccolta ora pubblicata da Gallimard c’è la famosa Lettera alle veggenti. E in Nadja, il primo romanzo di Breton, la protagonista incarna un po’ la figura della fata, ma incontrata nel quotidiano… Nel suo saggio Il romanzo, il reale del resto, elencando i romanzi che considera tali e sulla cui base elabora la sua teoria, c’a anche Nadja.

Io mi riconosco in questo modo di concepire il romanzo: si tratta innanzitutto di stabilire un legame tra il romanzo e la vita. All’inizio di Nadja Breton parla del romanzo come di una casa con le pareti di vetro… anche se in effetti da questo punto di vista sono più dalla parte di Aragon, credo limitatamente alla trasparenza e come Aragon vedo il romanzo come un labirinto di specchi. In ogni caso condivido l’idea del romanzo come inchiesta che permette di riconoscere dei segni attraverso i quali si va alla ricerca di un senso. Il romanzo come ricerca di segni, questo permette di sfuggire appunto al neonaturalismo, allo psicologismo, al sociologismo di tanta letteratura di oggi. Il mio ultimo romanzo (Pi Ying Xi. Théâtre d’ombres, Gallimard, Paris 2022, non ancora tradotto in italiano) in questo senso è piuttosto surrealista. Quello che costituisce le avanguardie, di qualunque epoca, è la volontà di una tripla rivoluzione: poetica, politica e teorica. Cosa oggi molto rara.

Tra i testi raccolti, ce n’è uno breve, quasi commovente: Le la, il la. Lo può commentare?

Ci ho tenuto a far concludere il volume con questo testo, che Breton ha scritto tra gli ultimi, e che dice la coerenza del percorso compiuto, all’idea che inizialmente ha dato il la al surrealismo: la volontà di scoprire la fonte della scrittura.

gabriella.bosco@unito.it
G. Bosco insegna letteratura francese all’Università di Torino