Le ossa della terra
Intervista a Mario Montalcini e Daniela Berta, presidente e direttore del Museo Nazionale della Montagna di Torino
Il rapporto tra Primo Levi e la montagna è stato fondamentale perché, come lui scrive, gli ha trasmesso valori quali “pazienza ostinazione e sopportazione”, ma anche abilità quali “allenamento alla fatica, alla sete e alla fame” che lo hanno salvato da Auschwitz. Attraverso quali percorsi la mostra mette in luce questa relazione così speciale?
La mostra abbina un percorso cronologico, che segue la biografia di Levi e la storia a lui contemporanea, con una scansione tematica fatta di otto parole-chiave (Natura, Materia, Letteratura, Trasgressione, Riscatto, Amicizia, Scelta, Liberazione) che toccano, evocandoli e allo stesso tempo approfondendoli, i poli attorno ai quali si condensa in maniera più rimarchevole il suo rapporto con le terre alte: dai primi approcci nell’adolescenza, che lo vede animato più dal desiderio di contatto con la natura che dalla pratica di un vero e proprio alpinismo, agli anni universitari dove la montagna è possibilità di relazione reale, non mediata, con la materia oggetto dei suoi studi di chimica, un modo per conoscere con le mani e con gli occhi; al periodo dopo la promulgazione delle leggi razziali, dove la montagna è una parentesi pura di libertà, rivalsa e trasgressione (“Tu, fascista, mi discrimini, mi isoli, dici che sono uno che vale di meno: io ti dimostro che non è così” dice in un’intervista ad Alberto Papuzzi del 1984); fino agli anni dopo la guerra, dove l’alta quota è un topos intorno al quale nascono e prendono vigore le amicizie montanare della maturità, quelle con altri due giganti del Novecento italiano: Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern.
Le sezioni del percorso espositivo dialogano tra loro con rimandi reciproci e i temi sono approfonditi nel catalogo della mostra dai testi dei curatori Guido Vaglio e Roberta Mori e degli altri autori: Enrico Camanni approfondisce le frequentazioni alpinistiche di Levi prima della guerra; Massimo Gentili-Tedeschi, Giuseppe Mendicino e Marco Revelli raccontano l’amicizia con Eugenio Gentili-Tedeschi, Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli; Domenico Scarpa commenta i due racconti che Levi e Rigoni Stern si dedicarono a vicenda; Alessandro Pastore traccia una storia del rapporto tra mondo alpinistico e leggi razziali.
La mostra presenta materiali disparati: fotografie, cartoline, libri, lettere, materiali privati e pubblici che raccontano la particolare accezione della pratica alpinistica di Primo Levi. Come è stato reperito e selezionato il materiale?
Il materiale è stato selezionato a partire dall’impianto curatoriale, con lo scopo di offrire una narrazione costruita sulla documentazione – quando possibile in originale, altrimenti in riproduzioni di alta qualità – corredata dalle citazioni di Levi, una delle presenze sicuramente più eloquenti del percorso espositivo, e da elementi di riferimento al contesto storico, che possano essere di supporto anche per gli studenti che parteciperanno ai laboratori didattici tematici dedicati alla mostra per tutta la sua durata. La documentazione proposta proviene da numerosi istituti culturali, primo fra tutti il Centro Studi Primo Levi di Torino, in collaborazione col quale abbiamo sviluppato il progetto. Ma siamo onorati di avere prestiti anche da altre prestigiose realtà della nostra città e provincia: l’Archivio Ebraico Terracini, l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, l’Archivio storico dell’Università, il Centro studi Gobetti, la Biblioteca dell’Accademia delle Scienze, la Biblioteca Ginzburg del Liceo D’Azeglio, la Biblioteca Nazionale CAI, l’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea; e poi ancora la Fondazione Nuto Revelli di Cuneo, il Centro Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, l’Archivio Mario Rigoni Stern di Asiago, gli archivi delle Sezioni CAI di Roma e Milano.
Ci sono molte annotazioni che rievocano lo spirito ironico di Levi: le sue impressioni legate ai grattacieli, il suo understatement, l’amore per le Valli di Lanzo, un insieme di posture che fanno emergere un vero e proprio stile Levi. Come si abbina con la montagna e con quale tipo di montagne?
“Dal tetto del duplice World Trade Center la vista è vertiginosa come da una vetta alpina, ma l’opuscolo che descrive i due colossi gemelli esagera: “Non sarete mai stati altrettanto vicini alle stelle!”. Basta andare a Lanzo”
Giocare con le parole si può, anche ad alta quota: decostruire per capire, dissacrare sottilmente, ricomporre con fantasia. Le montagne di Levi sono per tutta la vita quelle delle valli torinesi e, pur in minor misura, quelle valdostane (più una parentesi lavorativa lombarda nel 1942-1943, durante la quale frequenta le Grigne e la Valtellina). Le Valli di Lanzo, di Susa, Sangone e Orco sono d’altronde le più rapide e agevoli da raggiungere (“a portata di bicicletta”): una montagna schietta e spartana che trova corrispondenza nell’opera leviana con i suoi continui rimandi letterari, scientifici, esistenziali, acuti e privi di retorica.
E ci sono poi le amiche e gli amici, i compagni e le compagne di Resistenza, tra tutti Sandro Delmastro a cui Levi dedicò il racconto più celebre d’ispirazione alpina. Le loro famiglie hanno collaborato?
Il progetto ha incontrato da subito interesse e disponibilità da parte dei familiari ai quali ci siamo rivolti. In buona sostanza, tutti gli amici della montagna entrano nella Resistenza. Si tratta di amicizie costruite e cementate proprio grazie alla montagna, che agisce da catalizzatore e collante potentissimo e duraturo. Salvo quando la brutalità della guerra strappa prematuramente le vite di Sandro Delmastro – primo caduto del Comando piemontese del Partito d’Azione, assassinato a Cuneo dai repubblichini, e indimenticabile protagonista di Ferro, uno dei più bei racconti di montagna del Novecento italiano – e di Vanda Maestro, con Levi e Luciana Nissim nella banda partigiana nascosta nella località valdostana di Amay, insieme catturati e deportati a Fossoli e poi ad Auschwitz. Ma ci sono anche Alberto Salmoni, Bianca Guidetti Serra, Eugenio Gentili-Tedeschi, Silvio Ortona, Ada Della Torre, Franco Momigliano. I materiali in mostra provengono dunque anche da alcuni archivi familiari e, oltre a contribuire al racconto della figura di Primo Levi, trovano qui uno spazio di ricordo anche per i protagonisti di questa cerchia di amicizie montanare e resistenti.
Tra le mostre su Levi, ricche e numerose, la montagna compare spesso, ma questa ha la montagna come angolatura particolare e privilegiata. Con quali esiti prospettici?
Focalizzare lo sguardo sulla montagna ha consentito di approfondire un tema spesso sfiorato, per restituire nel percorso espositivo – e approfondire e argomentare nel catalogo di mostra – il senso profondo di Levi nell’andare per valli e cime e, allo stesso tempo, per dare un contributo alla conoscenza di questo spirito complesso e straordinario. Allo stesso tempo, per il Museo Nazionale della Montagna è fondamentale attualizzare il portato culturale contemporaneo delle figure della nostra storia comune, in questo caso particolarmente convinti che la specifica visione leviana delle terre alte valga ancora oggi la pena di essere trasmessa alla comunità, in particolare ai ragazzi, ai quali Levi si rivolgeva con impegno e cura.
Il Museo della Montagna, posizionato in cima al Monte dei Cappuccini, è luogo di perfetta sintesi per raccontare sfide e valori di Primo Levi e per proporre nella sua città un percorso che intreccia scienza, ambiente, cultura e impegno civile in un’esperienza accessibile a tutti.