Conrad e la paura dell’altro | Dall’archivio

Un montanaro dei Carpazi nella civilissima Inghilterra

di Giuseppe Sertoli

Un uomo giunge da un altrove. È l’unico superstite di una nave che ha fatto naufragio. Lo hanno reclutato, in un lontano paese fra le montagne, mercanti di esseri umani che gli hanno promesso che là dove andrà troverà lavoro e facile ricchezza. Naturalmente deve pagarsi il viaggio, e perciò la sua famiglia vende qualche capo di bestiame e un pezzo di terra, dopo di che, caricato su un vagone ferroviario insieme ad altri giovani come lui, è trasportato a un porto sconosciuto dove lo fanno salire su una nave che prende il largo diretta verso il paese (l’America, che altro?) nel quale “l’oro si raccoglie per terra”. Stipato con i suoi compagni nell’interponte come gli schiavi di una volta, solo lui si salva quando, una notte, nel corso di una tempesta a ridosso di una costa sconosciuta, la nave viene speronata e affonda con tutto il suo carico umano. Il giorno dopo, il mare restituirà alcuni cadaveri: prima il corpo di una “bambina col vestito rosso” sospinto dalle onde sulla spiaggia, poi altri corpi – di uomini donne e ancora bambini – che dagli abitanti del luogo vengono caricati “rigidi e gocciolanti, su barelle graticci e scale” per essere disposti in una lunga fila sotto le pareti della chiesa. Lui invece è riuscito a raggiungere a nuoto la riva, nascondendosi prima in un porcile e bussando poi alle porte delle case per chiedere “cibo e riparo”. È però lacero e sporco, coperto di fango e farfugliante in una lingua sconosciuta, sicché spaventa le donne e i bambini a cui si rivolge, i quali reagiscono prendendolo a sassate e ombrellate. Scambiato per un pazzo fuggito dal manicomio, è respinto da tutti e alla fine rinchiuso in una legnaia come un cane rabbioso. Solo una ragazza che fa la domestica in una fattoria della zona ha compassione di lui e gli dà una mezza pagnotta “di pane bianco – come quella che al (suo) paese mangiano i ricchi”. Successivamente, un contadino di cui salva la nipotina caduta in un fosso lo assume come bracciante…

Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, questo non è il riassunto di un articolo di cronaca dei nostri giorni. È invece la trama di un racconto di Joseph Conrad – intitolato, dal nome della protagonista, Amy Foster (ma inizialmente Conrad aveva pensato a A Castaway/Un reietto) – del quale Tania Zulli ha fornito una nuova, bella traduzione (Marsilio, 2018) accompagnata da una precisa introduzione e informatissime note. L’altrove di questo racconto, perciò, non è l’Africa ma la catena dei Carpazi, e la terra a cui lo straniero approda non è l’Italia o la Grecia o la Spagna ma l’Inghilterra. Quella medesima Inghilterra dove una ventina d’anni prima lo stesso Conrad era giunto, anche lui dal mare, trovandovi una seconda patria senza, peraltro, diventare mai (parole sue) un vero inglese. Le connotazioni autobiografiche del racconto sono dunque abbastanza evidenti, pur se mescolate, come sempre in Conrad, a echi letterari che la critica ha puntualmente registrato (da Frankenstein di Mary Shelley a Un cuore semplice di Flaubert, da Victor Hugo a Ford Madox Ford e altri ancora), ma interpretare solo, o prioritariamente, in chiave autobiografica la storia di Yanko Goorall (tale il nome dello straniero) sarebbe riduttivo. Il racconto è invece una parabola – a giudicarla oggi, straordinariamente profetica – sulla questione del rapporto fra “noi” e gli “altri”. La stessa questione che solo due anni prima Conrad aveva posto al centro di Cuore di tenebra. E in effetti i due testi sono speculari, quasi il rovescio l’uno dell’altro. In Cuore di tenebra Conrad si era chiesto: che cosa succede all’uomo della civilissima Europa quando si ritrova nella wilderness africana? In Amy Foster si chiede: che cosa succede al “selvaggio” montanaro dei Carpazi (Goorall significa infatti “montanaro”) quando si ritrova nella civilissima Inghilterra? La risposta è la stessa: estraneità e solitudine.

Come Marlow in Africa, così anche Yanko si sente “tagliato fuori dalla comprensione di tutto ciò che (lo) circonda”. Sradicato dal suo paese di montagna, precipita in una realtà altra che lo disorienta già solo a livello percettivo: la stazione ferroviaria di Berlino gli appare un “posto grande, alto e pieno di rumori, di fumo e di buio” da cui entrano ed escono sferraglianti “macchine a vapore”; la nave (a vela) che deve portarlo in America gli sembra “simile a una grande casa sull’acqua” dalle “pareti lisce e nere” e con “alberi spogli a forma di croce (che) si levavano altissimi come se spuntassero dal tetto”; eccetera. Con questa ottica straniata e straniante s’incrocerà quella, non meno stranita, degli abitanti del villaggio dove Yanko ha trovato scampo dal mare. Incrocio di ottiche che è scontro di reciproche incomprensioni. Se Yanko non capisce perché le persone a cui si rivolge con parole gentili reagiscono malmenandolo, i suoi interlocutori, che interpretano quelle parole come il farfuglio insensato di un folle o di una “creatura selvaggia uscita dai boschi”, preferiscono chiuderlo in gabbia “come un animale”. Troppo diverso è lo straniero: diverso nei tratti somatici e negli abiti, nelle movenze e negli atteggiamenti. E in quanto diverso, inassimilabile. Anche dopo che avrà imparato la loro lingua (“ma che strano accento il suo!”), quando avrà dimostrato di saper lavorare la terra e accudire il bestiame, quando si sarà rivelato un cristiano credente (“ma che strano modo di pregare il suo!”), nemmeno allora Yanko si scrollerà di dosso lo stigma di una “odiosa” diversità. Se col passare del tempo gli abitanti del villaggio finiranno per assuefarsi alla sua presenza, non si abitueranno mai veramente a lui, cioè non lo accetteranno mai. Nemmeno quando sposerà la ragazza che lo ha soccorso e dal matrimonio nascerà un bambino. Questo, anzi, gli renderà ancora più ostile la gente. Alla fine, abbandonato dalla moglie, morirà – solo – nel fango e nella pioggia esattamente come quando era arrivato.

Come spesso in Conrad, la vicenda è narrata da un testimone a un ascoltatore/interlocutore che la riferisce (a noi lettori) fungendo da frame narrator. Il testimone è il medico condotto del luogo, il dottor Kennedy, che dopo essere stato ufficiale medico in marina e aver accompagnato “un famoso viaggiatore” (Stanley?) in “regioni inesplorate” (il Congo?) di un non meglio precisato “continente” (l’Africa?), ha deciso di ritirarsi in quel piccolo villaggio sulla costa della Manica. Sua è la voce che – simile a quella di Marlow in Cuore di tenebra – racconta retrospettivamente a un amico venuto a trovarlo la storia di Amy e Yanko. Come c’era da aspettarsi, la cosa non ha mancato di suscitare i sospetti dei diffidenti critici odierni, non pochi dei quali si sono affrettati a denunciare l’inattendibilità del racconto di Kennedy, in particolare per quanto riguarda il ritratto della protagonista. Non è forse lui a definirla “scialba” e “ottusa”? Non è lui a monopolizzare la scena tacitando la voce di Amy, che in tutto il racconto non pronuncia più che una manciata di parole, e trascurando di riferire il suo punto di vista? Se a questo aggiungiamo che Kennedy, ovviamente, “sta per” Conrad, la conclusione è scontata: ci troviamo di fronte a un racconto non meno maschilista e misogino di Cuore di tenebra.

Pace agli adepti della scuola critica del sospetto: a me sembra che il punto non sia affatto questo. Il punto, cioè la sostanza del racconto – una sostanza che tanto più s’impone proprio se si legge Amy Foster in parallelo con Cuore di tenebra – riguarda la “tragedia” (come la definisce il testo) che scaturisce da quella “paura” dell’altro – tanto più spaventoso quanto meno comprensibile – che genera solo ripulsa e/o fuga. Incomprensibili erano apparsi a Marlow gli indigeni africani, e incomprensibile appare Yanko agli occhi non solo degli abitanti del villaggio ma anche di chi, fra essi, più si mostra aperto nei suoi confronti. Due persone in particolare: da un lato la “semplice” Amy dal “cuore d’oro” che s’intenerisce per tutte le “creature viventi” della terra, topi e rospi compresi, dall’altro il dottor Kennedy con la sua “intelligenza scientifica”, il suo spirito indagatore e la sua fiducia che dietro ogni mistero ci sia una verità in qualche misura accessibile. Cioè da un lato l’amore e la carità cristiana (dar da mangiare agli affamati), dall’altro una curiosità empatica che (sorvolando su qualche tratto “lombrosiano”) sembra uscita dalle pagine di Malinowski, il fondatore dell’etnologia moderna, il quale aveva indicato appunto in un sapere empatico la via per accedere alla conoscenza dell’altro. E tuttavia, ciò che questo racconto non meno “etnografico” di Cuore di tenebra mostra con assoluta evidenza – quasi rispondendo preventivamente a Malinowski – è che nessuna forma di empatia, né quella di un sapere aperto all’altro né quella della carità e dell’amore, sono sufficienti a colmare l’abisso della diversità. La riprova è fornita dalla conclusione della vicenda.

Malgrado la sua bontà di cuore Amy, che pure in passato aveva preso le difese dello straniero assicurando i suoi compaesani che non avevano nulla da temere perché egli “non intendeva fare (loro) alcun male”, una volta sposata, quando vede il marito che, seduto sull’uscio di casa, canticchia al bambino una canzone nella sua lingua natia “come fanno le mamme con i loro bambini nelle lontane montagne” da cui Yanko proviene, glielo strappa dalle braccia pensando “che gli stesse facendo del male”. A disagio ogni volta che lo sente pregare nella sua lingua, ancor più lo è quando egli insegna le orazioni al figlio “come il suo vecchio padre aveva fatto con lui”. Quando poi, ammalatosi e febbricitante, Yanko incomincia a delirare nella sua “bizzarra e inquietante” lingua (come Conrad allorché, durante il viaggio di nozze, fu còlto da un attacco di malaria e prese a delirare in polacco spaventando la moglie) e, gridando, chiede a Amy dell’acqua (dar da bere agli assetati), lei fugge terrorizzata portando via il bambino. Anche in lei, dunque, lo straniero ha finito per produrre solo paura, e la paura ripulsa e fuga. L’altro/il diverso si è dimostrato inassimilabile. Inassimilabile e incomprensibile. “Non so come ho fatto a non capire”, confessa amaramente Kennedy alla fine, “ma non ho capito”. Che cosa non ha capito? Le cause delle tensioni subentrate fra Amy e Yanko? La gelosia di una madre che teme di vedersi “alienare” il figlio da un marito appartenente a una cultura che non è la sua?… Verosimile. Ma detto più semplicemente, ciò che il dottor Kennedy non ha capito – ciò che Amy non è riuscita ad accettare – è il fatto che l’altro resta sempre e comunque altro: un diverso che come tale chiede di essere riconosciuto e rispettato.

Parole per i nostri giorni.

gsertol@tin.it

G. Sertoli è professore emerito di letteratura inglese all’Università di Genova