Mappe di salvataggio
di Mariapia Veladiano
Veronica Galletta
Le isole di Norman
pp. 304, € 18,
Italo Svevo, Trieste-Roma 2020
In principio c’è una madre da cercare. Non è lontana, abita nella sua camera, qualche volta esce, qualche volta parla e ride come fanno le madri, più spesso no, resta chiusa dentro e costruisce pile di libri qua e là sul pavimento, una chiusa geografia di un chiuso mondo interiore al quale né il marito né la figlia hanno accesso. Ogni tanto sposta le pile di libri nella piccola stanza. È così da anni. Un disagio che si fa leggere e sottolineare, diversamente da tanti disagi di tante madri che sterilizzano l’infelicità dentro la passione per l’igiene delle mattonelle e il controllo dei figli. E infatti la figlia Elena lo legge, questo disagio, legame terribile che non prevede nessuna libertà possibile, e ne cerca la chiave, riproducendo su carta le mappe sempre diverse di queste isole di libri nella camera della madre. Ogni mappa numerata, ogni pila ben collocata, ogni spostamento registrato, come in una battaglia navale, come in una mappa del mondo che prima o poi si potrà finalmente interpretare, come è capitato ai grandi navigatori nella storia. Siamo nell’isola di Ortigia, anche lei ha costretto i libri a cambiare le mappe. Un tempo era collegata alla terraferma da un istmo sottile, poi si è staccata ma gli uomini l’hanno ricollegata a Siracusa con un ponte, due ponti, poi tre ponti, cordone ombelicale rigenerato, perché capita di dover tornare nella pancia, legame mai sciolto, vita non iniziata, se il mare si ritira, se la madre si sottrae e noi ancora non siamo adulti. Altrimenti nessuna autonomia è possibile. E infatti Elena che ha vent’anni non si riconosce nemmeno la libertà di prendere un appartamento a Siracusa per settembre, quando comincerà l’università. Chi controllerà la madre? Chi farà da madre a sua madre? Certo c‘è un padre. Comunista deluso, è insegnante e sicuramente è un uomo buono, ma non sa cosa fare e allora fa finta che in fondo vada tutto bene. Ottuso ottimismo che difende dal vedere.
Poi un giorno la madre sparisce davvero. Nessuna traccia. E comincia il viaggio di Elena alla ricerca di lei. Percorrere l’isola dal mattino presto fino al tramonto, ogni piazzetta, ogni chiesa, ogni monumento, ogni albero, ogni scoglio, disseminare le mappe e i libri come sassolini segnavia, piccolo mondo circoscritto, alla fine è un’isola, che si dilata sotto i nostri occhi di lettori, incantati dalle associazioni, dai colori, dagli incontri con gli abitanti del luogo, antichi come quelli fissati nelle pagine di un romanzo, improbabili e verissimi. È un labirinto l’isola di Ortigia, ma non si perde Elena, che cerca dentro di sé qualcosa che sa ma non riconosce, l’origine di certe isole di pelle rattoppata che le segnano le gambe, i glutei, la schiena. Si tratta di saper leggere le stratificazioni della memoria. Elena si è iscritta a geologia, chissà se riuscirà a partire e studiarla davvero. Non sono un accidente le isole che segnano il suo corpo, sono quasi tutta la sua identità, tutto di lei, ferita da queste cicatrici arrivate da storie confuse nella sua mente bambina.
C’è una furia in questo andare di Elena. Vediamo i passi nervosi, i libri e le mappe tormentati dal vento là dove sono lasciati, sopra una panchina, sotto un albero. Non c’è niente di razionale se non la determinazione di portare a compimento l’opera, disseminare tutte le mappe. Il tempo è quello della grande storia recente. Alla radio raccontano di una mummia appena ritrovata sul Similaun. Uno dei ricordi di lei bambina è un telegiornale visto nel salotto della vicina mentre sul video scorrono le immagini di un uomo rannicchiato nel bagagliaio di una macchina e la madre che piange ripetendo “È finita. È finita”. Quante volte può finire una vita? Un omicidio politico, l’incidente di una figlia. Se non la posso proteggere dal male, che madre sono?
Il romanzo – finalista alla XXVIII edizione del Premio Calvino e vincitore del Campiello Opera Prima 2020 – offre una scrittura classica, colta, precisa, avvincente. Bellissime le pagine in cui Elena bambina ripercorre la storia delle ferite, un poco alla volta, senza colpi di scena, agnizioni o folgorazioni. Un riconoscere la irriducibile complessità del nostro vivere, uno sguardo di umana bella comprensione sulla fragilità dei padri, una nostalgia buona di esistenze vere e mai semplici, perché non c’è niente di semplice nel mestiere di vivere. Bel romanzo, reso prezioso da una materialità dell’oggetto e della carta (bisogna avere un tagliacarte e guadagnare ogni pagina che si legga) oggi davvero rari.