“Amo le Utopie perché spostano la linea dell’orizzonte”
intervista di Loretta Junck
Simona Baldelli, nata a Pesaro, vive a Roma. Il suo romanzo di esordio, Evelina e le fate (Giunti 2013), finalista al Premio Calvino 2012, ha avuto grande successo di pubblico e di critica, assicurandosi il Premio John Fante Opera Prima 2013. Nel 2014 ha pubblicato, sempre per Giunti, Il tempo bambino.
Nella sua terza prova, La vita a rovescio, uscita nell’aprile 2016, si confronta con il romanzo storico ambientando la vicenda nella prima metà del ‘700, tra Roma, Viterbo e il Granducato di Toscana da poco passato agli Asburgo-Lorena. La protagonista del romanzo, realmente esistita, è la romana Caterina Vizzani, figlia di un falegname, lesbica, che per sfuggire al pregiudizio cambiò identità, diventò Giovanni Bordoni e per otto anni visse travestita da uomo, ebbe una vita avventurosissima e morì ventiquattrenne e vergine in seguito a una setticemia provocata da una ferita d’arma da fuoco.
La vita a rovescio è un’opera complessa, che ha diversi piani di lettura; si può leggere prima di tutto come un avvincente romanzo di avventure picaresche con un rigoroso sfondo storico. Un’esperienza nuova, nel panorama dei tuoi interessi, quella del romanzo storico. Quali problemi ha dovuto risolvere?
Il problema principale è stato quello della documentazione. Molte notizie di cui avevo bisogno per contestualizzare la storia, (abbigliamento, arredi, valore delle monete, abitudini quotidiane…) raramente si trovano in libri di scuola. Certamente vi sono volumi e saggi che contengono queste notizie ma, non essendo esse racchiuse in un unico testo, e non avendo tempo per leggere tutto lo scibile prodotto sul XVIII secolo, ho pensato di fare una ricerca nelle maggiori biblioteche pubbliche della città dove vivo, Roma, e in cui è ambientata la storia (e mi riferisco alle maggiori, a importanti archivi, non a biblioteche di quartiere). Mi sono spesso scontrata con episodi d’incuria e ottusa burocrazia da levarmi, ad un certo punto, la voglia di proseguire. Faccio alcuni esempi e sono quelli che di norma racconto alle presentazioni del libro perché, secondo me, sono indicativi dello stato in cui versano le nostre strutture culturali pubbliche e del livello di professionalità (di alcuni, chiaramente non di tutti) di chi vi lavora.
Volevo sapere il valore delle monete nel Settecento a Roma. Non mi bastava sapere che esistevano denari, scudi e baiocchi, avevo bisogno di conoscerne il potere d’acquisto. Se, ad esempio, il personaggio entra in un’osteria e ordina un fiasco di vino, quanto lascia sul banco? Tre quattrini? Sei baiocchi? Uno scudo? Individuata la biblioteca che contiene informazioni di questo tipo, mi reco nella sezione in cui sono contenuti i documenti che cerco. Spiego al responsabile del reparto che sono una scrittrice e che vorrei vedere (nei tempi e nei modi che lui mi dirà) un atto d’acquisto, un lascito testamentario, un libro dei conti… qualsiasi cosa che mi permetta di farmi un’idea del costo della vita.
«Mi dica il numero di protocollo», fa lui.
«Il numero di cosa?», domando io.
«Del documento».
«Guardi, non saprei che dirle, mi lascio consigliare da lei, preferibilmente il più vicino possibile al 1743».
«Sì, ma mi deve dire il numero».
«Non lo conosco».
Lui allarga le braccia. «Allora non posso aiutarla».
«Ma mi hanno detto che in questa sezione avrei trovato questo tipo di documenti» insisto io.
«Vero, ma senza il numero di protocollo non posso aiutarla».
«Metta una mano nell’archivio ed estragga il primo che capita, poi vedremo», suggerisco.
«No, − fa lui, stizzito, − perché prima di prendere un documento devo scrivere il numero di protocollo nel modulo».
Voglio piangere. «E se le dico un numero a caso?»
«Non si può, perché è una precisa serie di numeri e cifre».
Mi prudono le mani, perché capisco che, a parole, ragionando, non ne verremo mai a capo. «Mi perdoni, − dico, − ma se sapessi il numero di protocollo, forse conoscerei anche il contenuto del documento…»
Strizza gli occhi «Mi serve il numero di protocollo».
Dopo mezz’ora di questo dialogo l’ho lasciato lì, senza nemmeno salutarlo, e forse sta ancora aspettando che gli dia il numero.
Un altro episodio, in un’altra biblioteca, riguarda i documenti d’identità dell’epoca. Volevo vedere, per descriverlo nel romanzo, un passaporto dello Stato Pontificio del quale Caterina Vizzani ha bisogno perché, dopo aver cambiato identità, si trasferisce nel Granducato di Toscana. Scopro la biblioteca che li conserva. Ci metto due ore, da mezzogiorno alle due, per far capire all’impiegata che sono una scrittrice, che sto scrivendo una storia ambientata nella prima metà del ‘700 a Roma, e che vorrei vedere un passaporto dell’epoca. Finalmente, alle 14.00 in punto, lei s’illumina. «Oh, i passaporti! − esclama giungendo le mani, − Sono bellissimi. Immagini un foglio in cartapecora di dimensioni A5, sotto c’era il sigillo sulla ceralacca, tutti i connotati descritti perché non c’erano le fotografie», ma va’?, «la firma del Governatore… ne ho archiviati tanti l’anno scorso, uno scatolone alto così», fa il segno con le mani, «erano proprio tanti, ma tanti. Non li troviamo più!»
Penso di aver capito male. «Come?»
Lei scuote la testa. «No, no. Non si trovano più».
Sono allibita. Per prima cosa sta confessando con un candore immacolato una cosa che alle mie orecchie suona come peculato. Due, quello è un istituto pubblico e quei passaporti li ha archiviati col denaro dei contribuenti e quindi anche miei. Terzo, forse ho capito da dove vengono quelli che si trovano in vendita su e-bay. Che è esattamente il sito dove poi sono riuscita a vedere alcune immagini pur se molto sgranate.
Nella postfazione del suo romanzo, che intitola “Piccola storia nella storia”, raccontando come è venuta a conoscere la storia di Caterina, afferma che questa figura è stata per lei l’occasione di riflettere sulla condizione femminile odierna “ragionando di differenze e affinità fra allora e oggi, quanta strada percorsa e quanta da percorrere”. Quali sono, secondo lei, gli ostacoli che le donne ancora oggi si trovano davanti?
Nel romanzo, ho volutamente inserito, validi allora come oggi, alcuni dati sulla condizione femminile comparata a quella maschile. La diversa percentuale di impiego, i rarissimi casi in cui si riesce a fare carriera, la differenza di retribuzione a parità di lavoro, il giudizio morale e comportamentale, i pregiudizi sulle capacità, la violenza subita, specialmente all’interno delle mura domestiche… sono passati quasi trecento anni dalle vicende di Caterina Vizzani ad oggi e mi sembra che su questi temi, molta sia la strada ancora da percorrere.
Caterina/Giovanni scopre non solo che gli uomini “erano i padroni del mondo”, ma che forse lo erano “perché le donne li lasciavano fare” e “si contentavano del loro cantuccio nell’ombra”. Sembra quindi che se decidessero di cambiare e di non accontentarsi più, potrebbero contribuire a creare quello che Giovanni chiama “il mondo di lato”, un mondo alternativo in cui ogni diversità possa trovare cittadinanza e nessun uomo, nessuna donna debbano sentirsi “a rovescio”. Questa grande utopia sembra essere uno dei temi portanti del romanzo. È d’accordo con questa lettura?
Sono certamente d’accordo. Sono convinta che i libri non siano di chi li scrive, ma di chi li legge, quindi, se l’hai visto, vuol dire che c’è! Sì, amo le Utopie (che a volte raggiungono concretezza…) perché sono quelle che mandano avanti il mondo, che spostano la linea dell’orizzonte un po’ più avanti e non solo per chi ci crede e le insegue, ma per tutti, anche quelli che rimangono a casa a scuotere la testa e dire «Ma va’ là, minchione, che non serve a niente». Invece serve, e se non avessimo tutta questa zavorra di spettatori ostili, forse andremmo avanti più in fretta. Come società, intendo. E quel che dici in riferimento alle donne, è altrettanto vero. Dovremmo imparare a prendere quel che ci spetta “per diritto di nascita” (ci siamo anche noi, al mondo, mi pare) e non aspettare un’elemosina che cade dall’alto.
Pare di capire che gli ostacoli all’avvento del “mondo di lato” siano da una parte la resistenza dei privilegiati (lo stesso Giovanni ne accantona il progetto quando raggiunge una condizione di agiatezza), dall’altra la difficoltà delle donne a unirsi, superando l’ostilità che c’è fra loro − “Il vero ostacolo alla nascita del mondo di lato”, aggiunge nella Nota dell’Autrice. Natalia Aspesi, un’altra scrittrice interessata al mondo femminile, ma anche lei pochissimo tenera con le donne, lo scriveva già nei primi anni ’70. Pensa che sarà possibile, in futuro, una grande Alleanza tra donne? E come la si può costruire?
Parto da lontano. Quest’anno ricorre il 70mo anniversario del suffragio universale, il voto alle donne. Mi pare che fosse Turati a dire di essere contrario, anche in contrapposizione a certe aperture del suo partito, perché prima o poi, le donne, avrebbero finito per “votare il padrone”. E credo che già all’epoca abbia sollevato una questione di non poco conto. C’è infatti una tendenza, che non viene curata, che non viene corretta, e che riguarda l’educazione delle bambine e quindi delle donne, che ci spinge ad essere sempre compiacenti, accondiscendenti, e finisce per rendere drammaticamente vera questa affermazione. È forse questa una delle cause per cui le istanze femminili sono disattese. Credo che ci sarebbe bisogno di una profonda rilettura politica a partire dalle scuole, dalla moda, dai costumi, dai libri di testo sui quali ci formiamo. E anche dalla narrativa e dalla letteratura. Rimango sbigottita dalla quantità di libri scritti per le donne, in cui il tema centrale è, tuttora, l’arrivo del principe azzurro. Penso che ci sia ancora una maniera di raccontare la vita quotidiana che è molto lontana dalla realtà e da quello che la realtà potrebbe essere. L’ascesa sociale e politica di Caterina Vizzani, nei panni di Giovanni Bordoni, mi permette anche di raccontare il rapporto con il potere. È vero che è il maschio a fare carriera, ma nei suoi abiti c’è la femmina. Eppure l’atteggiamento non cambia. Perché? Le risposte che mi do, sono due. Da un lato la poca voglia di cambiare lo status quo e di perdere certi privilegi, dall’altra la scoperta che quelle che riteniamo “prerogative maschili” nella gestione del potere, siano in realtà le modalità con cui esso viene da sempre esercitato. Cerco di spiegarmi meglio. Non sono gli uomini ad essere arroganti, prevaricatori, quando sono in posizioni di comando, è il ruolo stesso a richiederlo. Non è socialmente accettabile un capo sensibile, attento, gentile, sembra che, senza l’esercizio dell’autoritarismo non gli si riconosca autorevolezza. Lo chiamiamo, nel migliore dei casi, una femminuccia. E le poche donne che riescono a raggiungere il potere, assumono le stesse caratteristiche che, a mio parere sbagliando, definiamo maschili. Se poi ci metti che siamo ancora lì, a fare le galline nel pollaio che si spiumano a vicenda per conquistarci l’attenzione del gallo/padrone, stiamo fresche.
Come ne usciremo? Intanto abolirei per legge i fiocchi rosa e azzurri e i giochi da bambine e maschietti e tutti quei modi di dire stucchevoli e, insieme, violenti: “sembri una femminuccia”, “non fare il maschiaccio”, “i bambini non piangono”, “le bambine non gridano”… e tutti quei ridicoli libri di scuola in cui Pierino va sempre al mercato mandato dalla mamma a comprare le mele perché è lei che sta a casa a fare la torta mentre il padre torna la sera, stanco, dal lavoro. Sto sragionando? Forse non tanto, comunque mi fermo qui.
Uno degli elementi di fascino del suo romanzo d’esordio erano le fate che proteggevano la protagonista e la sua famiglia contadina. Qui Giovanni è guidato dal fantasma di Bradamante, la donna guerriera, altra seducente invenzione, personaggio muto che si esprime solo con gesti simbolici. Che cosa rappresenta questa apparizione? Il sogno? La fantasia? Oppure la ragione, che consiglia a Giovanni di trattenere e incanalare la sua rabbia?
I miei lettori sanno che io amo introdurre elementi fantastici, nelle mie storie. Per Evelina e le fate, il mio romanzo d’esordio, in molti parlarono addirittura di realismo magico di matrice italiana. Non so, mi pare che la realtà, quella tridimensionale, intendo, non sia sufficiente a raccontare la vita, che è fatta di molto altro. Ecco quindi le fate di Evelina o i fantasmi di Mr. Giovedì in Il tempo bambino, personaggi irreali eppure probabili che mi occorrono per dare concretezza al nostro mondo di emozioni, paure e desideri. Per La vita a rovescio, ho scelto di accompagnare il cammino e l’evoluzione di Caterina con un personaggio letterario, eppure possibile fonte d’ispirazione per lei. Non dimentichiamo che Caterina, all’inizio della storia è adolescente, quel complesso periodo della vita in cui abbiamo particolarmente bisogno di miti, eroi da emulare. Bradamante è come il poster del Che, o di Gandhi, o di Maradona appeso sulla parete della camera di un adolescente. Mi piaceva che fosse un personaggio scaturito dalle pagine di un libro (La vita a rovescio, è anche un inno alla vita arricchita dai libri!). Avevo bisogno quindi di un testo che Caterina Vizzani potesse conoscere, dunque antico ma famoso, e che avesse un personaggio femminile che compisse “azioni maschili”, qualcuno che avesse bisogno di travestirsi per poter accedere compiutamente alla vita sociale e compiere gesta negate a una donna. Inoltre, Bradamante, ispira l’amore di Fiordispina… molte caratteristiche, come vedi, utili per il processo di immedesimazione di Caterina. E, la Bradamante del Boiardo, nonostante l’opera sia incompiuta, ha uno spessore maggiore, a mio avviso, di quella raccontata dall’Ariosto.
Inoltre, per me che vengo dal teatro, in cui anche i pensieri devono essere “mostrati” e restituiti allo spettatore, personaggi come le fate o Bradamante, mi occorrono per dare un contradditorio al protagonista, anche in momenti in cui è solo con la sua coscienza. Sto per dire un termine poco ortodosso, chiedo scusa a te e ai lettori, ma credo efficace. Io non sopporto, da lettrice, i “pipponi”, pagine e pagine in cui l’autore ci racconta chissà quale rovello intimo… mi annoiano e mi sanno più di “spiegone” che di letteratura. Show, dont’ tell, mostra, non dire, si dice nello spettacolo e credo valga anche per la scrittura. Il rapporto con Bradamante, le reazioni della donna-nuvola, ci permettono di vedere cosa passa a Caterina per la testa, sono la proiezione dei suoi pensieri, le emozioni vissute in solitudine. Altrimenti dovrei descrivere un personaggio sdraiato sul letto che fissa il soffitto. Che fa? Pensa. Sì, ma che pensa? E io quei pensieri, quei sogni, dolori, non li voglio spiegare, li voglio far vedere!
E, a proposito della rabbia, Bradamante le insegna come usarla, controllarla, certo, a valorizzarla. Perché ritengo che sia il più utile dei sentimenti, la molla che spinge sempre a compiere un’azione, uscire dall’inanità.
È stato notato che gli incipit dei suoi romanzi catturano immediatamente il lettore. Il mondo a rovescio non fa eccezione. Ci può dire qual è il loro segreto?
Davvero? Se è così credo che sia dovuto al mio passato teatrale.
Si mette sempre molta cura nell’allestimento della scena che apre uno spettacolo. Bisogna catturare lo spettatore, fargli dimenticare pensieri “casalinghi” (chissà se prenderò una multa là dove ho parcheggiato, oddio dove ho messo le chiavi, uh, guarda chi c’è due file davanti a me, mi sa che facevo meglio a stare a casa a guardare una serie tv…), portarlo subito nel mondo che vuoi raccontare. Ecco, cerco di restituire tutto questo nelle prime righe del romanzo perché, come in teatro, o il pubblico lo acchiappi subito, o non lo acchiappi più.
La vita a rovescio di Simona Baldelli, un libro consigliato dalla redazione dell’Indice nello Speciale Estate 2016: la recensione di Tiziana Magone.