Il nuovo graphic novel dell’autore di Rughe
Intervista a Paco Roca di Andrea Pagliardi
dal numero di gennaio 2017
Ha scritto a cadenza abbastanza regolare dei libri in cui affronta la memoria storica della Spagna, come L’inverno del disegnatore, e altri, invece, come La casa e Rughe, in cui parla delle memorie personali. Il rapporto tra ricordo, memoria personale e storia è molto interessante. Quando un ricordo diventa storia e che rapporto ha la storia con la memoria?
Non ci avevo pensato e non li ho alternati in modo cosciente, ma i temi della memoria collettiva e individuale ritornano nelle mie opere. A suo modo è una specie di ricerca dell’identità, di provare a capire se stessi come persone e anche come membri della società, com’è la società in cui viviamo e qual è il suo comportamento. In questo senso, in tutto ciò che ho fatto finora mi sono occupato di questo tema, cercare la mia identità, come società e come persona.
Quindi l’identità è una specie di filo conduttore tra la memoria individuale e quella collettiva.
Sì, anche nell’Inverno del disegnatore, che è il tentativo di comprendere com’erano i disegnatori degli anni cinquanta in Spagna, e ho imparato molto su quale fosse la loro visione del mondo del fumetto e su come è cambiata nel corso del tempo. Per me guardare al passato è un modo per capire il presente.
All’inizio ha scritto dei libri in cui è molto presente un approccio diverso, surrealista, per certi versi fantastico. E poi ha smesso.
Parlo sempre degli stessi temi e anche i miei personaggi quasi sempre si somigliano, lottano contro qualcosa di inevitabile, per non perdere la dignità. Sono personaggi perdenti. Anche se si ritrovano sempre lo stesso tema e gli stessi personaggi, cerco di vestirli in modo diverso, di vederli da un punto di vista surreale, o umoristico, o storico, con approcci diversi. Credo di parlare sempre delle stesse cose, anche se cerco di cambiare. Ma è anche vero che fare un fumetto è un lavoro molto lungo, che richiede anni per essere finito, per cui ho bisogno che il progetto iniziale sia diverso per non annoiarmi e per stimolarmi. E ho bisogno soprattutto di strumenti sempre nuovi per trovare un altro modo di raccontare, cambiando genere o da un’altra prospettiva, ma inevitabilmente finisco per parlare sempre delle stesse cose.
Come autori non di fumetti, quali sono i suoi riferimenti? Per i suoi primi lavori, immagino che ci sia un’influenza della letteratura sudamericana, quindi Cortázar, Borges… Invece nei suoi testi più legati alla memoria, quali sono gli autori non di fumetti che magari possono essere dei riferimenti, se ce ne sono?
Ne potrei dire tanti. Ad esempio, in Spagna, Almudena Grandes e Javier Cercas, che danno sempre alla memoria un posto importante all’interno della loro opera. A livello internazionale, direi il premio Nobel Svetlana Aleksievič. Mi sembra molto interessante il suo modo di recuperare la memoria di una società, un buon punto di riferimento per me.
Pensando ai suoi possibili riferimenti a me viene in mente Mazzucchelli.
Sì, Città di vetro è una meraviglia.
Altri autori?
Ce ne sono molti. Il manga, ad esempio. Credo che uno dei problemi che abbiamo avuto in Occidente sia stata la mancanza di storie legate al realismo quotidiano, alla vita di tutti i giorni. Preferivamo le avventure, l’epica, altri generi. Eppure quando si guarda al Giappone, a Tezuka o a Taniguchi, si vede che hanno sviluppato un tipo di storie che parlano di fatti quotidiani. Anche nell’anime, Takahata e Miyazaki fanno un’animazione legata alla quotidianità, lontana dalle storie grandiose Disney, parlano di piccoli dettagli. In questo senso gli autori giapponesi esercitano un’influenza su di me. Tezuka negli anni settanta sceglieva temi narrativamente impensabili per il resto del mondo. E poi ci sono Marjane Satrapi, Chris Ware, Daniel Clowes e uno dei miei preferiti, Jaime Hernandez, l’autore di Love and Rockets. Ma mi piacciono anche autori più classici, come Vittorio Giardino.
Tra gli italiani contemporanei, a parte Zerocalcare? (ndr.: Al momento dell’intervista Roca aveva appena concluso un incontro pubblico proprio con Zerocalcare)
Bartoli (sceneggiatore della serie a fumetti John Doe dal 2002 al 2012), Liberatore, Gipi… Sì, l’Italia ha moltissimi grandi autori.
A proposito del film Arrugas-Rughe, noto che il fumetto è lungo 90 pagine mentre il film dura 90 minuti.
Una coincidenza!
Sì, ma è strano, perché di solito un film di due ore si riesce a fare con un fumetto più denso. È stata difficile la trasposizione, considerando la lunghezza del fumetto?
Nel mio caso il fumetto si è rivelato un po’ corto per il film. È stato necessario aggiungere alcune parti e toglierne altre, ma ho più aggiunto che tolto. Ho inserito tutta la scena della piscina, il dramma tra Emilio e Miguel, i due protagonisti, altre cose che mancano nel fumetto, proprio per questioni di lunghezza. Will Eisner diceva che il fumetto è il cinema dei poveri. Per me è falso, perché il fumetto è più simile a un romanzo o a un libro che a un film. Le due forme di lettura non hanno niente a che vedere. Un fumetto o un romanzo sono molto più lenti. Il lettore è attivo, non passivo, si muove in avanti, all’indietro, è in grado di seguire un sacco di trame e di personaggi diversi senza perdersi. Invece nel cinema lo spettatore è passivo, deve apparire tutto molto chiaro, molto semplice. Nel caso di Arrugas-Rughe ho dovuto eliminare dei personaggi secondari perché risultavano troppo confusi. Ho dovuto togliere certe cose ma soprattutto aggiungere, perché le novanta pagine erano un po’ corte per i novanta minuti del film.
Ha dei progetti per il futuro? Ci può anticipare qualcosa?
Negli ultimi tempi ho lavorato all’adattamento cinematografico di Memorie di un uomo in pigiama, un film di animazione, ma ho avuto problemi con i produttori e ho abbandonato. Ero il regista ma ho dovuto lasciare perché eravamo in disaccordo. Il film uscirà lo stesso alla fine del 2017. Peccato, ho passato anni a lavorarci per niente. Ora ho quasi finito una cosa un po’ strana, un libro-disco, una conversazione con un amico musicista che ha un gruppo rock-punk. La musica mi ha sempre affascinato perché non capisco molto bene come si faccia una canzone. È una specie di conversazione, di dialogo tra di noi, in cui lui racconta come compone, da dove gli vengono le idee, come si immagina le canzoni nella sua testa, com’è l’industria discografica, e io racconto a mia volta le differenze con il mondo del fumetto, come lavoro. Insomma, è un modo per conoscersi a vicenda.
Traduzione dallo spagnolo di Damiano Latella
“Tre fratelli si ritrovano un anno dopo la morte del padre nella villetta di campagna che l’uomo ha costruito con le sue mani e dove da bambini trascorrevano le vacanze. Uno scrittore sbadato con una moglie saggia, un meccanico schiacciato dal peso delle responsabilità quotidiane con un figlio già adolescente e una giovane donna con una bimba piccola e un marito giocherellone devono così confrontarsi con la sofferenza, la solitudine…” La recensione di La Casa di Paco Roca sul numero di gennaio 2017 nella sezione del sito riservata agli abbonati.