Intervista a Jonathan Galassi
di Ennio Ranaboldo
Jonathan Galassi è forse l’intellettuale che, negli ultimi trent’anni, ha più robustamente contribuito al rinnovamento dell’interesse del pubblico e degli studiosi americani per l’alta cultura letteraria italiana. È anche uomo di erudizione straordinaria e garbo squisito. Parlare con lui del suo lavoro editoriale, della sua opera poetica e di traduzione – e, adesso, anche della sua narrativa – è un rinfrescante rimando al piacere e alla necessità della conversazione.
Parliamo del suo retroterra. Negli anni giovanili lei ha studiato molto l’italiano ed è diventato un perfetto conoscitore della nostra lingua…
Mio nonno era italiano. Arrivò negli Stati Uniti nel 1900, a soli tredici anni, con suo fratello e molti altri membri della famiglia. Sposò un’americana che conosceva l’italiano, si era laureata a Radcliff. Poi c’è stato mio padre, che studiava italiano ad Harvard anche se poi si laureò in legge. L’arte italiana per me era bellezza e mistero, ne sentivo parlare fin da piccolo, ma non sapevo ancora la lingua. Dopo l’università, dopo Harvard, ho ottenuto una borsa di studio per Cambridge, sono andato in Italia e mi sono innamorato. E ho pensato: “Tutto questo è mio, tutto questo mi appartiene”. Sono tornato a Perugia durante l’estate, all’università per stranieri, e ho cominciato a imparare l’italiano; poi ho fatto ritorno a Cambridge e ho iniziato a seguire corsi su Dante e sulla letteratura italiana. Non ho mai avuto una specifica formazione italiana, ho sempre fatto a modo mio.Negli anni, ho trascorso in Italia sempre più tempo. Parlavo altre lingue, conoscevo il francese e il latino, e in un certo senso ho costruito la mia formazione su quelle basi. Ma ho ottenuto una vera educazione italiana solo lavorando sui testi, e il primo fu Montale.
Il lavoro su Montale l’ha impegnata per un tempo piuttosto significativo…
Ho cominciato traducendo Xenia e sono poi passato alla prosa, su cui ho lavorato per molto tempo. Ho affrontato le sue pubblicazioni più recenti e sono poi tornato agli scritti principali. Mi ci sono voluti tredici anni! Nel frattempo ho avuto tre bambini e ho fatto tante altre cose, ma Montale è stato il mio progetto principale: ci ho lavorato fino alla soglia dei quarant’anni.
Per poi spostarsi su Leopardi: com’è stata la transizione da un contemporaneo come Montale a Leopardi, forse uno dei poeti più impegnativi di sempre? La sua traduzione è da considerarsi alla pari del lavoro fattio da Robert Pinsky su Dante: è diventata un punto di riferimento anche per i lettori italiani, almeno per me. Sono affascinato dalla meccanica di una simile traduzione. Cosa può dirmi al riguardo?
Beh, questo è molto lusinghiero. Ho iniziato a lavorarci una volta finito con Montale: volevo continuare a tradurre dall’italiano ma non c’era un altro poeta moderno che veramente mi entusiasmasse. Così ho pensato: “Ok, farò Leopardi”. E sono arrivate le difficoltà. Pensi solo alle Canzoni, all’inizio così auliche… Mi sono detto: “In cosa ti sei cacciato?”. È stato un processo davvero lungo e doloroso. Ci sono così tante voci diverse in Leopardi. È questo il suo aspetto più interessante: il suo mutare di registri rimanendo allo stesso tempo sia figlio del suo tempo e della modernità letteraria che rispettoso della tradizione. Leopardi vive di paradossi, di paradossi affascinanti certo, ma ancora più complessi per un lettore straniero.
Quanto tempo le è servito per completare I canti?
Circa dieci anni.
Quanto ha fatto affidamento su passate traduzioni?
Le ho guardate ma non le ho prese molto in considerazione. Le traduzioni disponibili erano perlopiù quelle degli Idilli, i poemi più personali di Leopardi, ma in quel periodo ero più interessato ai suoi scritti intellettuali. Di traduzioni simili ne circolavano poche, e la maggior parte erano scadenti.
Legge molto ad alta voce per acquisire un senso del ritmo che sia d’aiuto alla traduzione?
Lo faccio fra me e me ma il ritmo è tutto, in traduzione. La miglior critica al mio operato mi fu mossa da un poeta, il quale disse che il mio lavoro era ritmicamente equivalente a quello di Montale. Anche con Leopardi è la stessa cosa: la logica interna della poesia presuppone un ritmo e sebbene il traduttore non possa trascrivere letteralmente le parole, può comunque costruire la traduzione sull’armatura del ritmo. Ritengo che sia imprescindibile.
Crede che la sua traduzione abbia davvero aiutato Leopardi a essere maggiormente compreso? Dal suo punto di vista privilegiato, come sta “viaggiando” il libro negli ambienti accademici e non?
Un anno o due dopo I canti abbiamo pubblicato lo Zibaldone nella traduzione di Franco D’Intino, e credo che entrambi abbiano avuto un grande impatto. So che l’edizione dello Zibaldone è riconosciuta come la migliore di qualsiasi lingua, migliore anche delle edizioni italiane. Ho incontrato Franco mentre cercava un editore e ho deciso di aiutarlo. È un risultato straordinario quello che abbiamo raggiunto. Sono soddisfatto di quello che ho prodotto finora, soprattutto per Montale. Ho fornito un contesto per leggerlo in modo più approfondito. Leopardi però è un discorso diverso. Tutti gli italiani lo studiano, è il poeta nazionale della modernità ed è anche, nonostante la sua intellettualità, relativamente chiaro, c’è complessità ma non oscurità. Certo, credo che il mio libro lo renda più leggibile, ma Leopardi è un poeta che non è nel radar degli americani proprio per la sua profonda italianità.
Negli ultimi quarant’anni lei stesso ha scritto tre libri di poesia, è traduttore ed editore. Vorrei scavare un po’ più a fondo in questa particolare dinamica, professionale e intellettuale…
Ho sempre voluto vivere circondato di letteratura. Sapevo che non sarei potuto diventare un accademico, non avevo molta fiducia nelle mie capacità di scrittura, ero certo che non avrei potuto vivere semplicemente scrivendo. Così ho scelto un “lavoro da impiegato” che fosse comunque legato alla mia passione: sono diventato editore e amo tutto di questa professione, anche l’aspetto più legato al business. Nel frattempo scrivevo con sempre maggiore continuità, e senza accorgermene ho cominciato ad accostarmi alla traduzione, prima di saggi accademici e poi di Montale. Avevo circa quarant’anni quando ho pubblicato il primo libro di poesie, che è uscito quasi in contemporanea al mio lavoro su Montale. Ora ho sessantacinque anni e ho dato alle stampe il mio primo romanzo.
Ho trovato questo romanzo molto sincero. Come la sua raccolta di poesie Left Handed, del resto…
L’ho buttata giù in un momento di crisi. Stavo solo cercando di capirmi, di capire la vita…
Ho letto che quando scrive poesie lo fa principalmente per spiegare qualcosa a sé stesso. Left Handed ne è probabilmente l’epitome. Ma parliamo di Muse: cosa l’ha portata a scrivere un romanzo?
Ho finito Left Handed e volevo fare qualcosa di nuovo. Mi sono sempre detto di non poter scrivere fiction ma poi ho pensato: “Perché non provare?” Ho passato un’estate in cui ogni giorno scrivevo senza rileggere. Alla fine ho messo tutto da parte per un anno. L’estate successiva ho ripreso il manoscritto e ho deciso che avevo il materiale grezzo su cui lavorare. E ho cominciato a migliorarlo.
Pensa di continuare in questo senso?
Sto lavorando a un altro romanzo e sto traducendo gli ultimi scritti di Montale. È un progetto ambizioso: tutti i suoi ultimi lavori, i suoi diari… Il lavoro da fare non mi manca. Il romanzo invece parlerà della giovinezza ma sarà qualcosa di diverso da Muse, non sarà una “commedia”…
Nel numero di ottobre 2015 – Il grande debutto letterario di Jonathan Galassi: Ennio Ranaboldo recensisce La Musa, il suo romanzo d’esordio (articolo riservato agli abbonati).