Intervista a Javier Marías di Veronica Orazi
dal numero di luglio-agosto 2018
Berta Isla narra le complicate vicende di una coppia – Berta e suo marito Tomás – all’apparenza normale, che si vede, o piuttosto si scopre, coinvolta suo malgrado in una serie di intrighi e trame di spionaggio. L’opera offre uno spunto di riflessione estremamente suggestivo sulla natura sfuggente della realtà, di tutto ciò che costituisce l’esperienza soggettiva. Come prende forma tutto questo nella narrazione?
Quelli che ha citato sono aspetti che emergono anche in altri miei romanzi già pubblicati. Si potrebbe affermare che siamo incapaci di conoscere alcunché, anche ciò che viviamo o abbiamo vissuto. Ci sembra, infatti, di sapere ma non è così. Pensi all’inizio di David Copperfield, quando il protagonista si presenta e afferma di essere nato, “così mi fu detto e credo”. Ecco, questo inciso così sintetico e scarno racchiude una visione chiave del reale: ciò che sappiamo – o che crediamo di sapere – è illusorio, si avvicina più a un atto di fede che all’oggettiva nozione degli eventi. E non potrebbe essere altrimenti: ciò che riguarda il nostro passato remoto non lo ricordiamo e assumiamo i dati di questa fase dell’esistenza dagli altri, accettandoli come veri, obiettivi e reali. Quando poi passiamo a una fase di cui conserviamo memoria e di cui crediamo quindi di essere consapevoli, cioè quando possiamo riflettere su un passato che ricordiamo, e persino al presente che stiamo vivendo, questo meccanismo si amplifica, perché nemmeno del presente sappiamo granché, neppure delle nostre stesse esperienze, neanche dei nostri genitori, che vediamo solo come tali, ignorando in fin dei conti chi sono davvero, come sono al di fuori e al di là di quel ruolo. Questo vale per tutto e tutti.
Insomma, Berta Isla offre spunti di riflessione profondi dimostrando fino a che punto dietro alla realtà che percepiamo, che si rivela una fragile apparenza, si cela l’essenza stessa dell’inconoscibilità del reale.
Sì, perché, a pensarci bene, non sappiamo nulla neanche di ciò che abbiamo vissuto o provato noi stessi, crediamo di sapere, ma ciò che possediamo si riduce a una visione personale, di noi, della nostra storia, delle persone con cui interagiamo e del contesto, dell’ambiente in cui ci muoviamo. Tutto si riduce al nostro punto di vista, alla soggettività di ogni esperienza. Persino la storia, la registrazione dei fatti e degli eventi, in linea di principio imparziale e obiettiva, è sempre sottoposta al peso della soggettività, anche inconsapevole e involontaria; e comunque la storia può sempre essere rettificata, smentita e persino negata. Forse una delle ragioni per cui raccontiamo è che abbiamo bisogno di certezze e allora capiamo che solo la finzione, nella sua irrealtà, più reale della realtà, può offrirci qualcosa di vero, di certo, perché frutto di un atto creativo che non vuole essere mimetico, descrittivo, ma quasi demiurgico, pura creazione; e la creazione riesce a emanciparsi ed emanciparci dalla riproduzione di una realtà necessariamente destinata a rimanere sfuggente e inclassificabile. L’unica cosa che non può essere rettificata è la finzione, che fotografa una realtà fittizia la quale è di per sé completa e irrefutabile.
Di fatto, anche quando un’opera di finzione viene rielaborata e modificata, si configura come un’opera nuova e dunque come una nuova realtà, vera perché frutto di un atto creativo e finzionale, che produce un’opera diversa.
Esattamente. Basti pensare al cambiamento del finale della Carmen presentata al Teatro dell’Opera di Firenze a gennaio di quest’anno, in cui a morire è don José, per mano di Carmen: il regista Leo Muscato ha ricreato il finale, perché voleva trasformarlo in una denuncia contro il femminicidio. È come se pubblicassimo una Madame Bovary in cui Emma fugge con l’amante o un Don Quijote in cui il protagonista non muore.
Quindi, in un testo, certi elementi possono essere utilizzati in modo strumentale, per arrivare a un determinato obiettivo. In qualche modo è così anche per Berta Isla?
In un certo senso sì, perché nel romanzo la trama apparentemente accostabile a una spy story, con il suo corollario di tratti, azioni e meccanismi narrativi tipici del genere, rappresenta un elemento funzionale a svelare l’illusorietà delle apparenze, in qualunque circostanza e in ogni contesto. La narrazione mostra la prospettiva parziale – perché soggettiva – dei due protagonisti (Tomás e Berta); il lettore scopre la visione dei due condividendo di volta in volta la prospettiva dell’uno o dell’altra, ricostruendo una vicenda che emerge progressivamente e mai del tutto; e uno dei due personaggi – Berta – resterà all’oscuro di buona parte dell’accaduto, della realtà, della verità. Di fatto, quando nel romanzo Tomás è costretto dalle circostanze a rivelare almeno alcuni dettagli segreti della propria esistenza alla moglie, l’avverte che comunque ci sarà sempre una parte che non potrà mai conoscere, che rimarrà ignota per lei. Ecco, questo gioco tra detto e non detto, tra rivelazione e reticenza, sostenuto da dinamiche quasi poliziesche, serve per fare riflettere sul fatto che l’esperienza della realtà e dell’altro, anche vissuta in prima persona, la percezione del nostro stesso vissuto e la sua elaborazione mentale nel ricordo, sempre in costante evoluzione col passare del tempo, rappresentano una visione che è necessariamente parziale, perché frammentaria e soggettiva.
Ed è con questo che il lettore deve fare i conti, con un meccanismo di pretesa conoscenza del reale e di chi ci sta di fronte, elementi che si rivelano tutt’altro che coesi, omogenei e coerenti.
Sì, si tratta di un condizionamento mentale, di un modo di pensare (l’idea utopistica di conoscere la realtà e l’altro) che si rivela fallimentare, non esiste né può esistere; è una consapevolezza cui dobbiamo arrivare, che dobbiamo accettare e con la quale dobbiamo convivere. I rapporti sono tutti frammentari e personali, si fondano tutti su una visione parziale e soggettiva, anche se facciamo fatica ad accettarlo. In fin dei conti, questa parte dell’esistenza e dei rapporti, destinata a rimanere personale, deve esserci; è come se costituisse lo spazio privato di ciascun individuo e questo può anche essere affascinante, per esempio in una relazione amorosa, perché ci offre la possibilità di vedere e di rapportarci all’altro come a una persona sempre nuova.
E la creazione del romanzo? Come nasce la sua opera?
Quando inizio un romanzo, scrivo senza conoscere la storia, non so ancora come si svilupperà e che forma assumerà; questo non accade solo con l’esordio, con i primi capitoli, ma anche oltre, neanche a metà romanzo ho necessariamente un’idea esatta del suo sviluppo definitivo; talvolta questo meccanismo si prolunga persino oltre la metà dell’opera. Nel caso di Berta Isla, per esempio, ho concepito una parte dell’azione un mese prima di arrivare a quel preciso punto della storia, a quell’episodio in particolare. L’idea è rimasta lì, si è sedimentata nella mia mente per un mese intero. Ho trovato tutto questo molto noioso, così alla fine ho deciso di cambiarlo, ci ho pensato per tre giorni e poi ho modificato l’episodio, che a quel punto non aveva più nulla a che vedere con la versione originaria. Mi è successo anche altre volte, con altri romanzi. Ecco, lo stesso accade con le persone: l’impossibilità di conoscerle fino in fondo, l’esistenza di una parte di loro destinata a rimanere sfuggente e inafferrabile, quindi ignota, perché non potremo mai prescindere dalla nostra visione parziale e frammentaria, ci salva dalla noia. In fin dei conti, l’impossibilità di una conoscenza totale della realtà e dell’altro ci offre la possibilità di scoprirne sfaccettature inedite e persino inaspettate, sorprendenti, che non avremmo mai nemmeno immaginato. È ciò che accade in Berta Isla.
veronica.orazi@unito.it
V Orazi insegna letteratura spagnola all’Università di Torino
Un romanzo dell’attesa: Veronica Orazi commenta Berta Isla, libro del mese del numero di luglio-agosto 2018.