Prospettive non convenzionali in La ferrovia sotterranea
intervista a Colson Whitehead di Cristina Iuli
dal numero di dicembre 2017
Nel suo romanzo La ferrovia sotterranea resistenza ed emancipazione dei neri sono affrontati con una prospettiva non convenzionale , che rovescia il piano diacronico e più realistico della narrazione in una sorta di materialismo fantastico o paradossale che permette di mettere sotto una luce grottesca le contraddizioni logiche del privilegio e del suprematismo bianco. Come colloca, lei, questo romanzo nel contesto della narrativa americana contemporanea?
Non sono veramente in grado di collocare il mio romanzo, semplicemente perché l’ho scritto. Però dal punto di vista del modo in cui il romanzo affronta la questione della particolarità razziale, come epistemologia, come sottolinea lei, in effetti ho scritto romanzi che decostruiscono le strutture sociali, romanzi che raccontano la costruzione dell’identità, come Sag Harbor, che ha come protagonisti dei teenagers alle prese con la loro identità. A volte faccio un passo indietro per cogliere – come in un grandangolo – i molti modi in cui la cultura opera, e allora la razza, che ne è parte, ha un ruolo chiave, ma altre volte mi interessa inquadrare un personaggio, mostrarlo in primo piano, e allora la razza non è importante, per niente. Ho scritto un romanzo sul poker, e il poker non è né bianco né nero. È solo poker. Dipende da cosa sto facendo.
La scelta dello stile indiretto libero dà al romanzo un taglio ottocentesco che però stride con il suo impianto non realistico, come se lei volesse deliberatamente inquadrare la narrazione attraverso diversi generi letterari difficilmente controllabili da una stessa prospettiva narrativa.
Narratore, prospettiva e generi sono strumenti per scrivere il racconto. A volte il realismo è un attrezzo efficace, altre no. Ad esempio, per raccontare cos’è stato crescere negli anni ottanta, in Sag Harbor, ho ritenuto più appropriato usare una struttura fantastica. In questo romanzo, se avessi scritto una slave narrative tradizionale, la storia di una persona che scappa verso il nord, non avrei potuto stabilire la conversazione con la storia che sviluppo nel racconto, spostando riferimenti e elementi storici. Quindi penso che quando si scrive si pescano gli attrezzi che servono a raggiungere l’effetto desiderato, e a volte il realismo è l’attrezzo giusto, mentre altre volte vorremmo creare effetti fantastici, allora ci vuole l’allegoria. Altre volte ancora vogliamo che un romanzo sia molto intimo, e allora abbiamo bisogno di un narratore in prima persona, o di un narratore molto vicino al personaggio che ci interessa, ma altre volte ancora è necessario fare un passo indietro e assumere la prospettiva di una sorta di coro, di un osservatore collettivo. È sempre la storia a dettare il proprio modo narrativo.
Però nella Ferrovia sotterranea lo scarto tra i due livelli narrativi è indispensabile a spostare i riferimenti e a costruire la cornice metastorica del racconto. Anzi il romanzo è pieno di riferimenti storici di cui si serve in modo ingegnoso, creando anacronismi e momenti di incertezza interpretativa, come il grattacielo nella Carolina del Sud o gli studi sulla sifilide.
Quando si arriva alla ferrovia, la storia non è più strettamente realistica, ovviamente. Quando si vede il grattacielo, quello è un gigantesco segnale anacronistico che dice al lettore: “Le regole del racconto sono cambiate”. La Georgia è uno stato molto realistico, perché prima di iniziare a giocare con la storia volevo essere preciso e testimoniare, in qualsiasi piccolo modo potessi farlo, l’esperienza della schiavitù. E poi, intorno a pagina 86, effettivamente mi prendo la libertà di spostare i riferimenti. Ad esempio con lo studio sulla sifilide di Tuskegee, iniziato negli anni trenta e quaranta del Novecento, che io sposto nell’Ottocento, o la sterilizzazione forzata, che è un fenomeno di fine Ottocento. Il problema era come utilizzare tutti questi modi diversi in cui il corpo dei neri è trattato tra la fine dell’Ottocento e nel Novecento per intrecciarli con la questione del corpo dello schiavo nero nella schiavitù, e la soluzione è stata quella di esagerare, di spostare i riferimenti costruendo storie alternative per poter costruire una spiegazione storicamente più accurata.
La ferrovia mi ha fatto pensare a un altro suo romanzo, L’intuizionista, perché anche lì la sua passione per le infrastrutture di mobilità sociale e razziale è resa attraverso la letteralizzazione di una figura di discorso che è però anche un dispositivo tecnico.
Penso che l’ascensore abbia un immenso valore metaforico, che ho usato e sfruttato molto nell’Intuizionista, ma che in questo romanzo è solo marginale, perché il tempo trascorso sottoterra è minimo, eccetto nella parte finale del romanzo, quando Cora percorre il tratto finale della galleria. Ma è importante come capsula spaziale che viaggia attraverso il tempo e che sposta Cora da un luogo all’altro del racconto e da uno stato all’altro del paese. È una porta aperta sullo “spazio di possibilità” che ciascuno stato rappresenta. Una metafora che mi permette di risparmiare sul viaggio, di passare in galleria il minor tempo possibile.
C’è un momento, mentre attraversano il Tennessee, in cui la relazione tra Cora e Ridgway non sembra più definita da un antagonismo assoluto, ma da un agonismo quasi filosofico. Quand’è che questo cambiamento di relazione, che cambia anche un po’ i personaggi, entra nello schema del romanzo?
Nella mia terminologia, la Carolina del Nord è suprematismo bianco, l’Indiana utopia nera, e il Tennessee è sempre una terra desolata. È stato distrutto dal fuoco, devastato dalla malattia ed è letteralmente uno scenario per far finalmente incontrare i due protagonisti affinché possano discutere dell’esistenza. E ho sempre in mente i paesaggi di Beckett, quei paesaggi post-apocalittici: L’ultimo nastro di Krapp si svolge su un asteroide scagliato nello spazio, solo una persona su una navicella spaziale; Aspettando Godot è una terra desolata, queste due figure contro un paesaggio assolutamente vuoto, nulla al di fuori di loro e l’esistenza da considerare. Ecco, nel romanzo ho sempre immaginato lo stato del Tennessee come una sorta di proscenio su cui, dopo essersi girati intorno per 150 pagine, finalmente Ridgway e Cora si incontrano e sono costretti a discutere idee divergenti su cos’è l’America e cos’è la libertà.
E a quel punto Ridgway non è più così moralmente orribile, diventa un personaggio intellettualmente seducente che, per forza argomentativa, ricorda un po’ il personaggio del giudice in Meridiano di sangue di Cormac McCarthy.
Certo, è nella tradizione dei grandi protagonisti negativi: vuoi che il tuo cattivo sia carismatico per farlo diventare più convincente, umano.
Anche Cora cambia molto e man mano che si procede nella lettura ci sembra di trovarci non più di fronte alla biografia di una schiava fuggiasca, ma all’affermarsi di un soggetto storico autocosciente, e al manifestarsi narrativo, di una coscienza storica critica.
Rispondo ricontestualizzando la domanda su cosa fa per me il personaggio di Cora. Inizia come oggetto e poi, passando da uno stato all’altro diventa una persona, e di conseguenza la sua conoscenza del mondo si espande, e parallelamente cresce la consapevolezza che lei ha di sé stessa. In parte la Carolina del Nord è questo processo di acquisizione di autocoscienza, e la Carolina del Nord e l’utopia agraria di Valentine rappresentano – in modi diversi – due limiti in relazione ai quali la sua identità e la consapevolezza che lei ha di sé stessa come persona sono messe alla prova, mentre man mano che procede verso nord si allontana sempre di più dall’idea di sé stessa come oggetto. Quindi, certo, i suoi pensieri e le sue prospettive cambiano decisamente. Ciò che pensa del mondo in Carolina del Nord è molto diverso dalle idee che sviluppa a Valentine, cioè in un ambiente definito dal senso di comunità e sicurezza.
La ferrovia sotterranea arriva al momento giusto, per l’attualità politica, ma anche perché sembra dialogare con l’evidenza della relazione tra schiavitù e modernità capitalista che studi storici, letterari, filosofici ed economici hanno portato alla luce e fatto circolare nell’ultimo ventennio. C’è stato un momento in cui questo passaggio ha avuto un impatto percepibile nella vita quotidiana, nelle relazioni sociali, nell’immaginario?
Non leggo mai saggi critici o libri di storia. Ma essendo cresciuto negli anni settanta e ottanta, cioè sulla scia della controcultura, mi viene ovviamente molto naturale adottare una prospettiva di critica al capitalismo da sinistra. Infatti, nella prima pagina del romanzo gli africani sono disgregati in unità monetarie. Quindi, la relazione tra la schiavitù e il più ampio sistema capitalista mi sembra molto naturale, anche solo per effetto della cultura nella quale sono cresciuto. C’è un libro che vorrei citare, a questo proposito: The Half Has Never Been Told.Slavery and the Making of American Capitalism, di Edward E. Baptist (Basic Books, 2014). Io ed Edward Baptist siamo stati invitati a tenere relazioni plenarie nella stessa occasione. La sua è una sorta di critica materialista radicale della schiavitù, un modo di parlare della schiavitù che a me sembra molto naturale. È denaro, e anche odio e pregiudizio, e sì, è denaro. Per quanto riguarda il contesto contemporaneo, quando scrivevo il romanzo non pensavo all’America di oggi. Ci sono cose come la milizia degli stati schiavisti e le leggi di polizia bianche e i paragoni con l’oggi sono ovvi, ma non amo affatto le interpretazioni del romanzo che cercano di ricollegarlo agli Stati Uniti contemporanei. Al contrario, penso che oggi non stia succedendo niente di nuovo, niente che non succedesse già vent’anni fa, o dieci anni fa. Ma personalmente direi che l’elezione di Trump e il fatto che abbiamo eletto come presidente un suprematista bianco hanno creato un contesto diverso per il romanzo.
cristina.iuli@uniupo.it
C Iuli insegna letteratura americana all’Università del Piemonte Orientale
Inedita pioniera di colore: Stefano Moretti recensisce La ferrovia sotterranea.