Il lutto di un padre e la dolorosa nascita di una nazione
intervista a George Saunders di Ennio Ranaboldo
dal numero di Ottobre 2017
George Saunders è considerato uno dei più importanti e originali scrittori americani del nostro tempo, oltre che un maestro assoluto del racconto. Nel 2013, ha vinto il PEN/Malamud Award per la narrativa breve. La sua ultima raccolta (Dieci dicembre, Minimum fax, 2013) è stata tra i finalisti del National Book Award e nominata tra i dieci migliori libri dell’anno dalla “New York Times Review of Books”.
Lincoln nel Bardo (traduzione di Cristiana Mennella, ed. orig. 2017, € 18,50, pp. 352, Feltrinelli, Milano 2017) è il suo primo romanzo. Si svolge nello spazio di una sola notte, in un cimitero di Georgetown, nell’inverno del 1862 – il secondo, terribile anno della guerra civile – dove è appena stato sepolto Willie, il figlio undicenne di Abraham Lincoln. In una umanissima e immaginifica notte di Valpurga, con al centro lo strazio di un padre, in visita alla tomba del figlio, e il destino ultimo dell’anima di Willie, il bardo – la transizione tra due vite, ovvero tra morte e reincarnazione, secondo la tradizione buddhista – si anima in una polifonica fantasmagoria, struggente e terrificante (e, spesso, esilarante) di spiriti inquieti, ancora fortemente ancorati alla loro esperienza terrena, contrappuntata da frammenti di fonti e testimonianze storiche, vere e inventate.
L’ho sentita dire che ha avuto in mente la storia di Lincoln per oltre vent’anni. In che modo è cresciuta, e quali sono state le difficoltà incontrate con la forma del romanzo?
Credo che quello che è accaduto in molti anni di scrittura (tra l’idea e l’effettiva stesura del libro) è che ho acquisito certi strumenti, soprattutto imparando a trovarmi a mio agio anche in spazi non apertamente comici, o che fossero più contemplativi. Mi sono sentito più sicuro calandomi occasionalmente in uno stato meno freneticamente ed insistentemente “divertito”. E questo è accaduto in due modi: ho vissuto di più, ed è diventato più difficile guardare alla sola oscurità della vita, cosa che mi ha stimolato a trovare un modo per rappresentare la speranza, la luce, l’amore e così via; e poi ho scritto alcune cose, prevalentemente non racconti, che mi hanno aiutato a padroneggiare la descrizione fisica e un punto di vista narrativamente più neutrale. Ho poi iniziato a domandarmi: “Come è stata la tua vita, davvero?”, e poiché la risposta era “per lo più bella e fortunata”, ho fatto sì che ciò trovasse spazio anche nella mia scrittura. Per esempio, nel mio racconto Dieci dicembre, c’è stato un momento in cui ho guardato al mio matrimonio di trent’anni e ho tradotto quello sguardo in prosa, scoprendo che il risultato suonava autentico, che la scrittura era viva. È stato, come dice la filosofia new age, “motivante”. Mi ha rassicurato sul fatto che le fasi della mia vita felici e luminose erano tanto valide (come semi narrativi) quanto quelle meno felici, se così posso dire.
Lincoln nel Bardo è stato universalmente lodato, ma Michiko Kakutani ha scritto sul “New York Times” che il romanzo avrebbe immensamente beneficiato di una assennata potatura. Come l’ha presa?
Forse la signora Kakutani non ha del tutto compreso quanto giudiziosamente io abbia già potato! No, seriamente: ho tagliato moltissimo e onestamente penso che il passo sia giusto, ma naturalmente i lettori possono non essere d’accordo. Accade che quello che emerge dalle recensioni io l’abbia spesso già pre-identificato come “problema”. In questo caso, il fatto che il libro consista quasi interamente di monologhi era una sfida implicita. La forma dà qualche vantaggio ma crea anche difficoltà. Un monologo è statico per natura. Continuavo a tagliare o ad eliminare del tutto alcuni discorsi, per poi magari recuperarne dei pezzi. A me pare che il libro scorra rapido. Ma ho anche notato che la forma insolita scoraggia certi lettori che semplicemente non leggono in quel modo. Altri, invece, entrano in sintonia immediata con la forma, e questo ha dei vantaggi – di velocità, di elisione – che li obbliga in un certo senso a ricostruire una forma narrativa più tradizionale sulla sola base dei frammenti che ho loro fornito. Di una cosa sono sicuro: il libro andava scritto com’è stato scritto. Ho lavorato sodo perché non mi accadesse di sperimentare a vuoto, così che la forma fosse sempre funzionale ad amplificare il coinvolgimento emotivo del lettore. Una volta ho sentito definire un romanzo come “un lungo lavoro in prosa con qualcosa che non funziona”. In questo senso, sono certo di avere scritto un romanzo.
L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, e Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson sono i due libri più citati in relazione a Lincoln nel Bardo…
È davvero ironico, in quanto non avevo mai letto né l’uno né l’altro quando ho cominciato il romanzo (sono stato uno studente pigro). Più o meno a metà della stesura, lessi La piccola città (dramma di Thornton Wilder), giusto per accertarmi di non essere su un terreno troppo famigliare, e conclusi che non era così. Ammiro Anderson e certamente gli do credito come influenza. Altre sono state Edie, di George Plimpton, Beetlejuice (il film di Tim Burton), il documentario sulla Guerra Civile di Ken Burns, Spirited Away (il film di Hayao Miyazaki) e Mentre morivo di Faulkner.
Il romanzo esprime grande empatia per il dolore di Lincoln (e per il povero Willie, naturalmente), le sue vicende personali e politiche. Ci dica della sua ricerca e delle sue impressioni sull’uomo e sul presidente.
Ho letto e consultato centinaia di libri su Lincoln ma non ho mai avuto l’ambizione di diventarne uno studioso. Per lo più li leggevo per maturare un’autentica affezione per lui, e anche per avere un senso della sua voce. Ho anche ricercato dati storici a sostegno di alcuni passaggi della trama. Mi è capitato di trovare qualche fantastico insieme di fatti che sembravano a tutti i costi voler entrare nel libro. Ho cercato di tenere sempre a mente che la funzione di uno scrittore è innanzitutto quella di creare una narrazione, non di presentare la storia. In altre parole, ho cercato di fare in modo che fosse il racconto a guidare, ricorrendo alla storia per dare struttura alla narrazione, o per renderla più potente.
Lei è un praticante e uno studioso del buddhismo. In che misura la sua esperienza ha influito sulla scrittura?
Ebbene, sono un buddhista e un ex-cattolico o forse oggi sono un buddista-cattolico. L’idea che trovo intrigante è che il momento della nostra morte non sarà – non potrà essere – molto diverso da questo momento qui ed ora. Le nostre menti e le nostre abitudini continueranno. La differenza principale (certa e terrificante) è che moriremo probabilmente in condizioni difficili, indeboliti, spaventati, o soffrendo o tutte quelle cose insieme (questa è la ragione per cui dobbiamo pregare e praticare ora). Ma se siamo definiti, anche in questo preciso momento, dalle nostre abitudini, quelle abitudini (di pensiero, le nostre priorità) ci seguiranno con ogni probabilità nell’altra vita, dove (secondo certi insegnamenti buddisti), l’improvvisa separazione dalla nostra fisicità provocherà una vasta espansione e potenziamento delle nostre menti e, perciò, delle nostre stesse abitudini. È un’idea buddista? Sì, certamente, ma è anche un’idea cattolica: il paradiso e l’inferno intesi come una “vasta espansione del nostro flusso di pensieri” (la cosa mi dà i brividi…).
Com’è riuscito a dare spazio all’umorismo in una narrazione per altri versi disperante e, letteralmente, funerea?
Qualche volta penso che scrivere sia un po’ come andare in bicicletta. Dovremmo piegare troppo a sinistra, o troppo a destra? No, da nessuna delle due parti. Possiamo quindi pensare all’umorismo come una sorta di necessario correttivo della tenebra. Lo scrittore fa continui aggiustamenti tra l’una e l’altra. E questo è giusto, ed è vero, proprio per come è congegnata la vita. La vita è felice? Sì. Triste? Sì. Paurosa, meravigliosa, preziosa, terribile? Tutti “sì”, a seconda del momento in cui si vive e della nostra disposizione di spirito. Penso quindi si possano intendere concetti come “umorismo contro disperazione” in questo modo. Uno scrittore formula costantemente una certa miscela di diverse qualità, con il fine di tenere il lettore in equilibrio, mentre questi cerca di capire cosa stia veramente accadendo. Se la bicicletta piega troppo a sinistra, bilancia a destra. E viceversa.
In un passaggio toccante, e storicamente evocativo, del romanzo, legge: “I grassi re d’oltremare (così come i re giù a Sud) guardavano ed erano contenti, che una macchina così bene avviata uscisse dai binari, perché se fosse uscita dai binari, sarebbe uscito dai binari tutto quanto, per sempre, e se a qualcuno fosse mai venuto in mente di rimetterla in marcia, be’, avrebbero detto (a ragione): La plebe non sa amministrarsi. Be’, la plebe sapeva e voleva amministrarsi. L’avrebbe guidata lui la plebe. Avrebbero vinto loro.”
Era un’idea comune, al tempo. Che l’Europa stesse osservando l’America, aspettando che questa fragile macchina democratica alla fine crollasse, dimostrando così che il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo” fosse un sogno impossibile, che “la plebe” fosse troppo stupida per autogovernarsi. E che la giovane nazione stesse sgretolandosi, sotto gli occhi di tutti, il Nord in guerra contro il Sud. Una ragione per cui Lincoln combatté così duramente per preservare l’Unione – che potrebbe parere a noi una ragione un po’ troppo accademica, viste le centinaia di migliaia di caduti – è perché capiva che gli Stati Uniti erano qualcosa di molto importante nella storia del mondo: la prima volta in cui un popolo aveva avuto la possibilità di determinare il proprio destino. Lincoln aveva anche una vera ostilità nei confronti del privilegio, e una passione per l’idea che chiunque potesse, con il proprio duro lavoro, scalare qualsiasi montagna. Voleva che questo ethos fosse parte integrante dell’America. Quindi, la battaglia contro i re ed i grassi ricchi che vivevano sulle spalle degli altri. È interessante pensarlo in questo particolare momento della storia americana, dove (sembra a me, almeno) la nostra democrazia, poveramente informata, ha portato al potere un uomo molto ricco, che pretende di essere dalla parte dei lavoratori, ma non lo è affatto.
Mi pare che Lincoln nel Bardo contenga un forte messaggio di speranza, sostanziato dall’amore: “Perché fin quando non saremo finiti, non potremo mai davvero dire ‘mai’. L’amore potrebbe essere ancora nostro”.
Sono d’accordo. Penso sia una funzione dell’arte e della letteratura: farci guardare stelle più lucenti. Viviamo certamente in un mondo in cui l’amore non vince sempre, e dove gli impulsi più oscuri e l’ignoranza della gente generano continuamente il male. Qualche volta occorre che l’arte ci aiuti a vedere tutto questo. Ma ci può anche aiutare a capire che abbiamo pure in dono quanto serve per spingerci verso la luce; capire che, qualche volta, grazie all’azione degli uomini, le cose possono migliorare.
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E Ranaboldo è critico letterario