La filantropia di ventura ridisegna la città?
intervista a Massimo Lapucci di Michele Cerruti But
dal numero di Ottobre 2017
Massimo Lapucci è il direttore generale di OGR (Officine Grandi Riparazioni di Torino)
Vorremmo discutere con lei del progetto di riqualificazione delle OGR che si sono aperte al pubblico il 30 settembre, con un evento gratuito lungo due settimane. Come nasce l’impresa di riqualificazione di questo incredibile spazio di architettura industriale?
Il progetto per le OGR è un’opera entusiasmante e ciclopica allo stesso tempo, e tratteggiarne la genealogia è indispensabile a capire perché una Fondazione di origine bancaria, e dunque no-profit, vi si sia imbarcata. Il progetto di riqualificazione di questo edificio straordinario che accoglierà un “distretto della creatività e dell’innovazione” integrando le eccellenze di cultura, arte e impresa ha infatti la sua origine almeno nel 2008, quando la città di Torino propose alla Fondazione di acquisire, da parte di Ferrovie dello stato le Officine Grandi Riparazioni. Tra il 2012 e il 2013 è stata costituita la società consortile OGR-CRT, è stato acquisito l’immobile e, soprattutto, si è cercato di capire quale potesse essere l’idea in grado di ispirare questa riqualificazione. Era necessario comprendere come trasformare un complesso architettonico in grave stato di abbandono, con parti in via di rinaturalizzazione e zone soggette ad allagamenti, e mantenere l’identità storica di “officina”, guardando però a una nuova missione. Ovvero la generazione e la rigenerazione delle idee attraverso un vero e proprio centro di sperimentazione. Una nuova “officina” della cultura contemporanea e creativa, che nella mia testa doveva essere tra le più produttive e dinamiche a livello almeno europeo.
Parla di officina perché in effetti lo spazio delle OGR era nato proprio in ordine a questo, ovvero alla riparazione di treni e locomotive. Uno spazio incredibile, che lascia a bocca aperta per la sua qualità e che impressiona per le sue dimensioni.
Va detto: lo spazio delle OGR è di una bellezza estrema, in grado di generare un grande entusiasmo e una forte volontà di recupero in tutti coloro che sono stati chiamati a lavorarci. È piuttosto chiaro che a fine Ottocento, quando hanno realizzato quell’edificio, vi fosse una grande visione di futuro, per progettare un luogo di lavoro costruito in quella maniera. Non si trattava solo dell’orgoglio che traspirava da luoghi di lavoro del settore ferroviario, in quel momento una vera punta di diamante della tecnologia e del progresso. Era anche l’espressione dell’eccellenza di chi vi lavorava. Questo genere di considerazioni hanno costituito la base per immaginare la visione attuale. Un cuore pulsante centrato sul concetto di “riparazione”, trasformato dalla missione di riparare e costruire treni alla missione di generare e rigenerare idee. Si è passati così da un iniziale progetto di pura messa in sicurezza dell’edificio a un progetto di rilievo internazionale, che mantenesse lo spirito dell’officina e che non cedesse alle facili lusinghe di chi avrebbe voluto qui biblioteche, laboratori, musei. Le future OGR sono un’officina che incamera idee, mostre, concetti. Vi aggiunge del valore ma poi, su base rotativa, deve lasciarle uscire, per poter accogliere nuove idee, nuove imprese da accelerare, nuove mostre da mostrare.
Mi pare che proprio in questo senso il progetto per le OGR racconti in maniera esemplare il passaggio da una città-fabbrica postfordista a una città che vede il suo futuro nella cultura. Possiamo parlare di un “modello Torino” esportabile?
Dipende certamente da cosa intendiamo per “modello Torino”. Che è anzitutto una città con ancora un grande senso delle istituzioni e delle origini e che si è ripensata nel tempo innumerevoli volte, passando da capitale del regno a città del lavoro, e in ultimo promuovendo la cultura come scommessa da affiancare alla ancora molto presente vocazione industriale. La reputazione che Torino ha sia a Roma, sia altrove, come nella bright and shining Milano, è proprio quella di un modello di sviluppo culturale sull’arte contemporanea e sulla sperimentazione che va osservato non solo per la sua capacità di raggiungimento di obiettivi, ma soprattutto per il suo persistere nel coltivarli. Nel nostro immaginario, le OGR si inseriscono in questa espressione contemporanea di una città che non smette di guardare al futuro. Per questo le OGR non sono solo (e non lo dico in via riduttiva) arte e cultura. La loro manica sud, parallela all’ “officina nord” dell’arte e della cultura, è destinata alla ricerca, all’accelerazione di impresa e all’incubazione. Grazie a un accordo firmato con il Dipartimento di stato americano e la Fulbright Commission, le OGR rappresenteranno la casa per i giovani italiani che tornano dall’America per formarsi sui temi dell’accelerazione e della incubazione tecnologica dopo aver vinto il bando Best (Business Exchange and Student Training). Contemporaneamente, alle OGR si lavorerà insieme al Politecnico, su tematiche quali i Big Data (indispensabili per la valutazione, ad esempio dell’impact investing), sull’agritech o sui settori che consideriamo di eccellenza, grazie anche ad acceleratori internazionali, in particolare statunitensi.
Accennava all’“impact investing”. Le OGR sono del resto un progetto attivato grazie a una filantropia 2.0, una venture philantropy, tema che riguarda anche il suo ruolo di presidente dello Europe Foundation Center e che spesso è assimilato a un concetto di welfare.
Ritengo sia importante non costruire confusioni linguistiche, in questo senso: forse è più utile tentare di capire cosa si intenda anzitutto per venture philantropy. La filantropia, in questo momento di perdurante riduzione della finanza pubblica, anche da ambiti in cui era tradizionalmente molto presente, è davanti a una grande sfida, quella di poter costituire un collante molto importante della stessa identità europea, non solo dal punto di vista teorico, ma anche rispetto al modo di fare. La filantropia che ha generato le OGR è a ben vedere un mix tra una filantropia di stampo tradizionale (che certamente non è più la charity di un tempo), e un’attenzione all’impatto che genera, sia che lo faccia con le cosiddette erogazioni o grantmaking, sia che lo faccia con modalità nuova. La grande scommessa, quando penso al concetto di venture philantropy e di impact investing, è che queste risorse investite nella ristrutturazione dell’immobile possano servire a generare un impatto. Un impatto sul territorio, ma un impatto anche al di fuori del territorio.
Intende dire che la venture philantropy ha una ricaduta importante anche sulla stessa trasformazione urbana?
Anzitutto non va dimenticato che a Torino, la città del lavoro, esiste una base importante costituita da due grandi fondazioni di origine bancaria, uno strato solido frutto di una lunga tradizione di risparmi e di patrimoni, e che da tempo affiancano gli enti pubblici nella costruzione della città.
In secondo luogo ritengo che il territorio vada oggi interpretato in senso molto ampio, e che operazioni come questa possono incidervi non se si occupano solo di far circolare risorse e persone al suo interno, ma se lo aprono anche a una dimensione internazionale. Ovvero se sono in grado, in un territorio, sia di attrarre eccellenze dall’esterno, sia di far conoscere all’esterno quanto di più eccellente c’è localmente. Questo è il sunto dell’approccio venture philantropy, cioè una filantropia di ventura legata soprattutto all’investimento di impatto. Un impatto che in questo caso risiede nello stesso spirito delle OGR, il cui equilibrio economico-finanziario si compone di una mescolanza di missioni: alcune saranno certamente in perdita, ma sono necessarie per il loro notevole valore, altre avranno invece la capacità di attrarre una remunerazione. E questa è la più grande scommessa, dopo quella altrettanto alta e importante, mi lasci dire, della ristrutturazione dell’immobile. La trasformazione indotta dalla venture philantropy è cioè quella che parte dall’hardware, ovvero la ristrutturazione dell’edificio, e si occupa poi della gestione del software, che non sarà certamente meno complessa e che ha a che fare con il territorio in modo estremamente significativo.
Noi vorremmo che le OGR fossero la casa sia di esperienze che oggi sono sparse sul territorio, sia di nuovi contenuti, che siano in grado di far vedere a chi viene da ogni parte – noi auspichiamo – d’Europa e del mondo che cosa di buono c’è in questo territorio. Ma allo stesso tempo vorremmo fossero un centro di attrazione per eccellenze che arrivano dall’esterno, perché mostrarle in quella scatola particolare che sono le OGR significa indicare cosa il territorio stesso è in grado di attrarre. In questo senso ritengo che questo progetto rappresenti una sfida nel software non meno importante che nell’hardware, allo stesso modo in cui, nei progetti di formazione che la Fondazione segue da lungo tempo, ci occupiamo di fornire soft skills, nell’idea che si possa lavorare in forma complessa sul bagaglio delle persone. Questa è in definitiva la sintesi del progetto delle OGR, un’officina fisica attraversata dall’eccellenza contemporanea, tanto che mi piacerebbe che in futuro, quando le persone da fuori pensassero a Torino, potessero dire, tra l’altro, “andiamo all’Egizio, andiamo a Palazzo reale, andiamo alle OGR”.
michelecerrutibut@gmail.com
M Cerruti But è dottorando in urbanistica allo Iuav di Venezia