Un’archeologa inciampata nella storia
Intervista ad Ali Smith di Gabriella Dal Lago
dal numero di novembre 2016
Un pittore del Quattrocento che, nella stanza di un museo, osserva una ragazza guardare un suo dipinto: da qui inizia il suo romanzo, e da qui vorremmo iniziare anche questa intervista. Come si è avvicinata alla figura di Francesco del Cossa? E perché la scelta di immaginare Francesco del Cossa come una donna?
Mi piace il modo in cui le arti si compenetrano, si contaminano e con questo romanzo stavo cercando di creare una struttura che potesse rimandare alla struttura dell’affresco, in cui ciò che è in superficie e ciò che si trova sotto sono entrambe fisicamente parti dello stesso muro, ma a volte sono la stessa cosa, a volte sono completamente diverse tra loro.
Volevo, in altre parole, trovare una struttura che avrebbe permesso e suggerito superficie e profondità e tempo sincronico, un piano contemporaneo così come una dimensione storica.
Per caso ho visto un disegno di del Cossa, una delle immagini di Palazzo Schifanoia, e questo disegno non mi ha solo colpito per la sua bellezza e la sua potenza, ma mi ha sorpresa anche per il suo essere un’immagine così antica eppure così contemporanea. Allora sono andata a Ferrara e ho visitato il Palazzo e quello che ho visto lì era una metafora letterale per ciò che, in arte, dura e ciò che scompare, e che cosa ha veramente un valore. Contemporaneamente, ho scoperto qualcosa sulla storia personale di del Cossa: conosciamo davvero poco riguardo la storia della sua vita, ma il poco che conosciamo è appassionante e lo conosciamo perché c’è una lettera a provare la sua esistenza. E quella lettera sarebbe stato un immenso regalo per qualsiasi romanzo, un regalo che mescola voce, consapevolezza, vanità e coraggio. In più, uno sguardo a qualsiasi figura dipinta da del Cossa fa nascere domande sul genere. Così ho fatto agire il mio istinto e quello che i miei occhi vedevano incontrando gli occhi di del Cossa.
Le due sezioni del libro sono rispettivamente aperte da due icone: gli occhi di Francesco del Cossa e la telecamera di Sarah Wood. Ma questi non sono gli unici occhi che ritornano nel romanzo: l’atto del guardare è al centro di tutta la narrazione. Questa centralità dello sguardo però viene narrata in un romanzo che è molto «parlato»: non solo la parte di Francesco (un lungo flusso di coscienza in prima persona), ma anche la parte di George, ricca di dialoghi diretti e riportati. Il contrasto tra voce e sguardo è forte, sembra di ascoltare una storia sussurrata all’orecchio mentre si è davanti a un grande affresco.
I sensi sono separabili? Ogni immagine ha una voce. Ogni voce crea immagini, e poi c’è il tatto e il gusto e anche l’odore, tutto compresso sia nell’immagine che nel suono. Il romanzo ruota intorno a come usiamo i nostri sensi, e in che modo epoche differenti ci portano a usarli in modo diverso. Si chiede anche: con che cosa preferiresti vedere e da che cosa preferiresti essere visto – l’occhio naturale, intrecciato con l’immaginazione estetica, o il singolo ciclopico occhio di una macchina priva di coscienza?
La storia di Francesco è un poetico flusso di coscienza, mentre la parte di romanzo dedicata a George è piena di grammatica, giochi di parole: i due capitoli hanno ognuno il proprio linguaggio. Questi registri linguistici sono molto diversi eppure convivono nello stesso romanzo: qual è il significato di questa coesistenza?
Non siamo mai da soli. E siamo sempre in compagnia – una compagnia invisibile – delle persone che se ne sono andate prima di noi e delle persone che verranno dopo di noi. La nostra esistenza è stata resa possibile da chi è esistito prima di noi, e noi rendiamo possibile quella di chi esisterà dopo di noi, e viceversa, e nonostante possa sembrare che cinquecento anni e un paese diverso e una storia diversa siano enormi barriere e confini insuperabili per mettere in connessione persone diverse, in realtà noi abbiamo tutto in comune se solo guardiamo o ascoltiamo oltre noi stessi. Questo è ciò che l’arte è, e ciò che l’arte fa. Apre i sensi, spalanca una porta oltre, e in modo paradossale contemporaneamente dentro, il concetto del sé.
Il meccanismo di straniamento con cui Francesco del Cossa guarda il mondo contemporaneo in cui è stato catapultato è affascinante. È stato difficile per lei autrice osservare il nostro mondo con gli occhi di un uomo del Quattrocento?
No. Leggere la lettera originale di del Cossa, scritta di suo pugno, è stato come avere una finestra aperta sull’essenza di quella persona, e tutto ciò che ho dovuto fare è stato ascoltare.
Nel romanzo non sono infrequenti i passaggi in cui il narratore prende parola e commenta l’andamento della narrazione, o riflette sulla narrazione. A quale distanza ha posto il suo narratore rispetto alla storia, e perché ha scelto quella distanza? Pensa di aver riassunto in queste parti del libro una sua idea di letteratura?
La voce esterna si trova solo nella parte di George, e in punti in cui la struttura delle cose si aggiusta, ritrova una sua unità per lei, dopo essere esplosa in mille pezzi. In questi punti George è perfettamente in grado di immaginare i meccanismi della narrazione e la struttura estetica come potenziali elementi sia di riconciliazione che di pericolo, ed è in grado di iniziare a riflettere su come ricostruire la conoscenza, come stabilire la propria autorità. In più, per i lettori, questo è – dopo tutto – un libro. È sempre un bene ricordare che la struttura estetica è proprio solo questo: una struttura estetica. Così un piccolo cenno al fatto che le narrazioni che costruiamo nelle nostre vite (e delle nostre vite) sono alterabili, sono malleabili, questo cenno è un regalo, sempre.
Il suo libro è una trama fitta di incastri e corrispondenze. Non è solo la specularità delle due novelle, ma il continuo mescolarsi di passato e presente, il compenetrarsi dei piani temporali e la creazione di connessioni tra personaggi a colpire il lettore. In che modo lavora per creare questo intreccio?
È un processo abbastanza semplice, davvero. Il tempo è già per sua natura multiplo, stratificato. Noi stessi siamo esseri stratificati dimensionalmente, e così è la narrativa. Andando avanti ed espandendosi, la trama crea se stessa, organicamente. O, in altri termini, mi sento come un fortunato archeologo che inciampa sulla punta della storia, che si trova a percepire la forma di questa storia sepolta nel terreno. Quello che devo fare è disseppellirla, ripulirla, togliere la polvere e la terra da essa con tutta la cura di cui sono capace, e poi posarla per terra, allontanarmi e guardarla.
gabrielladallago@gmail.com
G Dal Lago è laureanda in letteratura italiana
L’una e l’altra: il commento di Gabriella Dal Lago al romanzo di Ali Smith di cui si discute nell’intervista.