Alba Donati, nuova presidentessa del Gabinetto Vieusseux

I tatuaggi sulla mia pelle sono i valori della mia terra

intervista ad Alba Donati di Chiara Di Domenico

Nelle scorse settimane Alba Donati, poetessa e critica letteraria italiana, è stata nominata presidente del Gabinetto scientifico letterario Vieusseux. Alba Donati è la prima presidente donna. 

La bella notizia del conferimento alla carica di Presidentessa del Gabinetto Vieusseux arriva proprio in quel mese di marzo che, quest’anno, festeggia in Italia i 70 anni di pari diritti civili per le donne. È uno splendido punto di arrivo per una poetessa che ha deciso di essere anche parte attiva nella società culturale che la circonda. Ci vuole raccontare come ha avuto inizio questa avventura?

L’avventura è una scommessa che se viene vinta è un bene in senso assoluto. Mi spiego: il Gabinetto Vieusseux ha a che fare con la disciplina più negletta del nostro tempo, la letteratura, una cosa che non serve a niente, che non produce reddito, che sta totalmente fuori dal mercato. La letteratura ha a che fare con un arricchimento personale, tutto interiore. Il Vieusseux, che conserva libri e manoscritti, ha avuto tempi d’oro –  Montale, Bonsanti, Siciliano – ma negli ultimi anni sembrava destinato a uscire fuori dagli interessi della politica, si temeva per la sua collocazione, per la sua stessa identità. Ma oggi il sindaco ha inteso lanciare una sfida in senso contrario. Perché è noto che non so stare ferma, che mi piace rimettere in moto le cose letterarie.  Non penso a una politica di “eventi”, ma a iniziative che sappiano portare la più recente discussione culturale dentro un’istituzione prestigiosa, e magari portare gli scrittori di oggi a confrontarsi con i nostri archivi e riproporre ai più giovani una rilettura dei classici  del Novecento a partire da uno scarabocchio, una chiosa, una variante. Bisogna intervenire laddove la scuola non riesce a muoversi. Non lasciare che le cose vadano a
ramengo.

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È opinione comune che il mondo dell’editoria stia attraversando un momento di cambiamento radicale, che in questi ultimi anni ha portato alla chiusura di molte case editrici e di diversi premi letterari, alla fusione di grandi marchi e testate giornalistiche. Stanno certamente cambiando, insieme ai modi di comunicare, anche i contesti sociali di riferimento. Sta cambiando il pubblico del libro, secondo lei? Come vive questo cambiamento?

 C’è una confusione pazzesca provocata dal monopolio del mercato. L’autentico, laddove esiste, viene subito manipolato, usato, reso oggetto di consumo. Un’industria editoriale vuole arricchirsi a partire da un pubblico demotivato, reso imbecille dall’ editoria stessa, e, insisto, da un percorso scolastico inadeguato. Come è possibile tutto ciò? Si deprime la scuola, e poi si vuole vendere, a chi dalla scuola esce,  libri. Qualcosa non torna, bisogna rimboccarsi le maniche e ricominciare dall’ inizio. La curiosità, l’indipendenza, la capacità imprenditoriale resistono, nonostante tutto; basta vedere quante case editrici indipendenti producono libri di cui ci si fida, da NN che ha pubblicato Kent Haruf a Voland con Mircea Cartarescu, a L’Orma con Annie Ernaux, per non parlare di Minimun Fax o Playground. I lettori devono potersi fidare, ma i lettori devono diventare anche lettori consapevoli. Serve un umanesimo rivoluzionario.

Franco Loi ha scritto di lei: “Alba Donati è poeta nella scrittura e nell’ atteggiamento verso la propria esperienza”. Come riesce a conciliare la contemplazione, l’isolamento che richiede la poesia con l’azione di una professionista della comunicazione, seppure culturale?

 Non lo so proprio. Me lo sono sempre chiesta. Ma credo che la risposta stia nelle mie origini. Il cordone ombelicale con i miei luoghi, un’alta Lucchesia quasi Garfagnana, non l’ho mai tagliato. Arrivare a Firenze da un paesino di centocinquanta anime, dove la povertà, l’arretratezza, ma anche la dignità e la solidarietà erano aria che si respirava, tutto questo ha steso tatuaggi sulla mia pelle che Fedez se li sogna. Sono qui in una città bellissima come Firenze, ma sono anche sempre lì in un luogo dove l’inautentico svanisce in un attimo. Lucignana è un paese di pietre, e le pietre sono solitarie ma messe una accanto all’ altra fanno una casa, una strada. Tutto questo io non lo dimentico mai. A volte di notte mi sveglio e mi cade addosso tutta l’enormità della paura, esco da una stanza, vado in un’altra e proprio sull’ angolo un pensiero si struttura intorno a una cosa che soffre. E’ il mio nido ancestrale.

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 Un tempo si diceva “ufficio stampa”, per una professione che è sempre stata praticata soprattutto da donne, e che in questi ultimi anni ha positivamente subito un allargamento di prospettiva: non più solo i rapporti con i media tradizionali ma anche la rete, anche il rapporto col pubblico tramite premi, festival, i famigerati “eventi”. Cosa si sentirebbe di consigliare a chi volesse intraprendere questa carriera nel 2016?

È una professione durissima, non credo di averla scelta, sono stata scelta. E allora ne ho fatto, insieme alla mia amica Lea Codognato, una professione. Era il 1995, siamo state innovatrici da questo punto di vista. Cioè abbiamo creato uno dei primi uffici stampa a tutto tondo in ambito culturale: arte, premi, editoria, festival, musica, cinema. Ma è un mestiere che devi saper dominare per non restare stritolata tra le attese degli autori e le nevrosi dei giornalisti. Due categorie a rischio estinzione. Io consiglio di avere una preparazione umanistica alle spalle prima di tutto e non “professionale”. Per promuovere un bel libro si deve sapere qualcosa di letteratura e non di “comunicazione”. Noi i curriculum di Scienze della comunicazione li abbiamo sempre scartati. Poi è importante mantenere una propria identità, e una propria credibilità. Se devi promuovere una cosa in cui non credi non funziona. Poi meno “ciao” e più “buongiorno”, meno “tu” a vanvera. Sbaglio?

Quali sono i suoi (cattivi e buoni) maestri?

I miei maestri migliori sono state le professoresse che ho avuto la fortuna di incontrare sin dalle medie fino all’ università. Donne meravigliose con una passione reale per la lettura. Ho letto Calvino, Morante, Fenoglio, Moravia, Ginzburg, Pavese a quattordici anni. Brecht e Montale a tredici. Ho subito sentito che tra la letteratura e la storia c’era un legame profondo. Altri maestri? Tra quelli che ho conosciuto certamente Cesare Garboli. Poi una volta ricordo che Giorgio Caproni mi chiese il braccio per scendere degli scaloni. Mi sembra un sogno. Poi le mattine a casa di Mario Luzi e i pomeriggi da Piero Bigongiari. Mi vengono solo in mente buoni maestri. È una mia propensione caratteriale per il bicchiere mezzo pieno. Un cattivo maestro (questa sarebbe la sua stessa autodefinizione) è sicuramente Alfonso Berardinelli. La poesia verso la prosa è stato un libro importante. La sua severità – contro la troppa poesia, i troppi romanzi – va sempre tenuta presente. Come cattivo maestro ha degli antidoti contro la stupidità del presente che sono necessari.

 Che cosa si sente di dire a chi sostiene con ciglio asciutto che non ha senso pubblicare libri di poesia nel 2016?

Povero 2016, e perché? Forse perché la poesia non vende? Ogni editore per un libro che vende ventimila copie dovrebbe pubblicare un libro di poesie, dovrebbe essere una regola scritta, anzi una proposta costituzionale. Comunque vorrei rendere onore a una casa editrice come Le Lettere, che con la sua storica collana di poesia “Il nuovo melograno”, ci ha fatto conoscere Carol Ann Duffy, Margaret Atwood, Denise Levertov continuando l’opera di quel meraviglioso essere che era Vanni Scheiwiller (altro maestro).

Ci racconta che cos’è per lei il Gabinetto Vieusseux e, tra tutti i preziosi documenti che contiene, quello che le sta più a cuore?

È quel polveroso passato che ci rende immortali. Il documento che mi sta più a cuore devo cercarlo, ma sarà una storia alla Borges, infinita.

C Di Domenico