La vocazione al coraggio della “Letteratura inutile”
Per il nostro ciclo d’interviste all’editoria indipendente, riproponiamo quella a Giovanni Nucci di Italosvevo, uscita nello speciale Più libri più liberi 2019.
Intervista di Matteo Fontanone a Giovanni Nucci
Nel 2013 l’editore Gaffi acquisisce il catalogo e il marchio delle Edizioni Italosvevo, fondate a Trieste nel 1966. Con la crisi del libro ormai endemica del mercato italiano, un’operazione del genere da parte di un editore indipendente è coraggiosa…
La Italosvevo a Trieste era legata ad una delle più importanti librerie della città ed era una casa editrice totalmente concentrata sulla città, l’acquisto del marchio da parte della Gaffi non è mai stato pensato in modo da poter sostituire quell’esperienza, ma per farsi ricchi di una tradizione culturale ed editoriale particolarmente importante. C’è un legame antico e profondo tra Alberto Gaffi e la città di Trieste, è in nome di questo legame che l’editore ha voluto tenere in vita un marchio che di per sé richiama quei luoghi e l’allure culturale che era di Saba, di Bobi Bazlen, di Joyce e, appunto, di Svevo.
La vostra “Piccola biblioteca di letteratura inutile” ha un nome curioso e un intento particolare: pubblicare tutto ciò che è di difficile categorizzazione. Come funziona, dall’interno, la collana? Qual è la linea editoriale, e come si seleziona cosa merita di essere pubblicato dalla massa di testi che invece non fanno al caso vostro?
È detto bene, pubblichiamo tutto ciò che è di difficile catalogazione: e questo è volutamente un modo di andare controcorrente, di distinguersi dagli altri. Soprattutto in un’epoca in cui l’editoria manca un po’ del coraggio necessario alla propria vocazione culturale e commerciale. Se si pubblicano solo libri molto ben catalogati, facendo esattamente quello che, si presume, vuole il pubblico, si finisce per appiattire la cultura, in senso antropologico, su se stessa. La conoscenza, cioè la letteratura, la poesia, la scienza, qualunque disciplina del sapere, progredisce se dà spazio a ciò che non è stato ancora pensato, sentito o riflettuto, e quindi scritto. Per questo il mestiere dell’editore è un mestiere particolare: non è come la sanità, dove vanno date gratuitamente le cure che la gente si aspetta, di cui la gente ha bisogno; i libri vanno venduti, i lettori li devono comprare, ma bisogna offrire loro ciò che ancora non conoscono, ciò di cui non immaginano di aver bisogno – e che quindi li potrà veramente arricchire. Forse è un po’ questa la nostra linea editoriale: fare ciò che i nostri lettori non si aspettano.
In questa “Piccola biblioteca” sono passati e passano ancora nomi che al lettore suoneranno familiari: Caproni, Berardinelli e Cortellessa, ma anche narratori pop come Rossari, Aiolli, adesso Terranova. Qual è il punto di equilibrio?
I punti di equilibrio, come tali, sono sempre difficili da ottenere. E mettere qualcosa accanto a Caproni, a Schumann o a Orson Welles è particolarmente difficile, sia su di un piano editoriale che su quello commerciale. Per noi l’idea, o perlomeno l’intento, è di avere un simile livello di profondità, di densità, di importanza. Anche un libro particolarmente leggero, come il Dizionario delle malattie letterarie di Marco Rossari, che non so se definirei “pop”, dimostra di avere una grande intelligenza, e preparazione, nel volerci far ridere. Così come il Carteggio bellosguardo di Valerio Aiolli, che è una bellissima storia d’amore, ma che muove la sua levità dalle profondità dell’anima di due grandi scrittori dell’ottocento. Per venire all’ultimo uscito, Un’idea di infanzia: i saggi di Nadia Terranova sulla letteratura per bambini e ragazzi: questo è davvero un libro necessario, un libro importante: perché si dà troppa poca importanza ai libri per ragazzi. Invece sono la base su cui si poggia la piramide del consumo culturale: quindi è fondamentale che ci sia grande attenzione su questa produzione letteraria. Quando dico consumo culturale lo intendo su di un piano commerciale, non culturale o formativo, cioè la base, il fondamento delle vendite, attuali e soprattutto future, di libri nel paese è sull’editoria per bambini e ragazzi. Detto ciò trovo che Nadia Terranova sia una critica straordinaria: nei suoi articoli dimostra sempre di avere una grande preparazione e conoscenza della letteratura, oltre all’acume, all’intelligenza e alla leggerezza con cui ne parla. Penso sia davvero importante il suo concentrare l’attenzione così assiduamente sulla produzione editoriale per bambini e per ragazzi.
Si è parlato molto, negli ultimi mesi, di Inciampi di Marco Filoni: c’è ancora uno zoccolo duro di bibliofili cui rivolgersi?
Sì, grazie a Dio c’è sempre uno zoccolo duro di bibliofili. Ma il libro di Marco Filoni non è soltanto un libro sui libri, è un libro su ciò che sembra marginale, meno importante o non centrale, e che invece svela aspetti fondamentali, quasi fondanti, della nostra umanità. L’idea che si possa basare la propria scrittura sui libri che non saranno scritti, o il proprio lavoro, e quindi la propria formazione, sul fatto di rimandare continuamente ciò che dovremo fare. È un’idea bella e di grande centralità, in una società iper competitiva, dove bisogna fare tutto e anche molto in fretta. Il bello è che Marco Filoni è davvero così: è da tanto che dovevamo fare questo libro, lui continuava a rimandare, a posticipare, a tirarla per le lunghe: alla fine son dovuto andare per quasi un mese sotto casa sua: citofonargli, poi offrirgli il caffè, perdermi in chiacchiere e rivoli, nella speranza che poi si mettesse davvero a lavorare al libro. È stato faticosissimo – per me. Però penso che se Marco me lo avesse consegnato dopo solo un mese dalla prima volta che ne avevamo parlato, cioè quasi due anni fa, Inciampi non sarebbe mai venuto il piccolo gioiello che è poi diventato col tempo, e a forza di procrastinare. Detto ciò Filoni ci insegna qualcosa di profondamente vero e filosofico: le cose più importanti vengono quando non tutto fila liscio, ma quando qualcosa ci fa inciampare e dobbiamo fare uno sforzo per restare in piedi. Ecco, in questo Inciampi è davvero il libro perfetto per la nostra collana: dice il contrario di quello che sembra.
Un po’ come il tuo E due uova molto sode, dove usi le uova come filo rosso che lega riflessioni, nozioni e ragionamenti diversissimi, in un campo largo che va dal divertissement culinario al pensiero intellettuale. Ma mi domando come e quanto le due linee, quella alta e quella più “quotidiana”, si parlino nella vita di tutti i giorni
Quello è un libro davvero strano. Come dice Berardinelli, in un qualche modo è un manifesto della collana, anche se lo avevo scritto ben prima di prendere la direzione editoriale della Italosvevo, un po’ per gioco, senza troppi pensarci, ma poi non avevo trovato un editore che lo prendesse e lo avevo accantonato. Poi quando Alberto Gaffi mi ha convinto a metterlo in Italosvevo, non ci puntavo molto, l’ho pubblicato senza troppe aspettative: invece è stato il libro più venduto della collana insieme al Dizionario delle malattie letterarie di Marco Rossari. Commercialmente ci siamo inciampati sopra. È un libro che funziona benissimo, senza che in fondo se ne capisca il motivo: forse perché le uova sono così importanti e vitali, ma nello stesso tempo misteriose e sconosciute. Sono esteticamente perfette, come direbbe Munari, benché siano fatte col culo, e poi sono totalmente metaforiche, possono essere la metafora di qualsiasi cosa. Ecco: credo che le uova siano perfettamente letterarie. Così è stato per me importante, e anche molto divertente, poter trovare tanta letterarietà in qualcosa di così normale e semplice come un uovo al tegamino. Immagino che i lettori alla fine abbiano ben percepito quanto mi sono divertito a scovare nelle uova così tanta profondità o consistenza. E poi anche le uova, in fondo, sono un inciampo, almeno quelle che ci mangiamo noi, non avendo un pulcino dentro.
Da poco avete inaugurato anche una collana di narrativa, con un primo titolo dal sapore pulp: che tipo di romanzi volete pubblicare, e in cosa ambite a differenziarvi dall’offerta che già c’è?
Il libro di Fernando Coratelli non è un libro pulp. È un libro sulla realtà di oggi, realtà umana e sociale, intendo. Ecco: Alba senza giorno ci mostra quanto questa realtà possa essere più complessa e sfaccettata, articolata, di quanto le grandi semplificazioni politiche o giornalistiche o dei social vogliono farci credere. In questo senso è un libro profondamente letterario: perché a una trama tutto sommato lineare unisce una scrittura di grandissima raffinatezza, ed è questa altezza della scrittura a dare il senso della complessità del reale che racconta.
La collana di narrativa si chiama “Incursioni” ed è un po’ l’idea, di nuovo, di andarsi ad infilare là dove gli altri non arrivano. Volevamo fare una collana di narrativa pura, cioè che si distinguesse nettamente dalla prosa letteraria della “Piccola biblioteca di letteratura inutile”. Avevamo bisogno di andare a pescare in un laghetto dove gli altri editori non hanno il coraggio di andarsi ad addentrare, un po’ perché vogliono pescare sempre negli stessi posti, e difatti mi sembra tirino su dei pesci che hanno sempre lo stesso sapore. Ecco, noi volevamo pescare altrove, e abbiamo affidato questo lavoro a Dario De Cristofaro che questo lavoro di ricerca, di incursione nelle altre narratività, lo fa da quasi dieci anni con la rivista “Effe” e con il sito “Flanerì”. Quell’esperienza, quel lavoro ai margini, è prezioso e ineguagliabile: la scommessa, adesso, è nel dargli un corpo editoriale: così per quanto “Incursioni” sia diversa dalla “Piccola biblioteca” parte dalla stessa vocazione per l’inclassificabile, o non ancora classificato.
Tra poco sarà il turno di Giovanni Bitetto, un nome particolarmente apprezzato dalla nicchia che ancora legge la critica letteraria online. Cosa aspettarsi dal suo esordio letterario?
Il caso di Giovanni Bitetto è esemplare per la collana: uno scrittore giovanissimo, che da subito si è distinto, appunto, come critico. E che è molto atteso in questo suo debutto letterario: sin dall’inizio si era rivolto a noi per questo libro, immagino che abbia riconosciuto nel progetto di Dario De Cristofaro una grande vicinanza con ciò che aveva scritto. Siamo molto contenti che sia lui, insieme a Fernando Corattelli, a inaugurare la collana, penso che riflettano entrambi un’idea molto alta di narrativa. Detto ciò, da Scavare di Bitetto bisogna aspettarsi una sola cosa: che sia un gran bel libro.
È una domanda consumata e banale, lo sappiamo, ma in fondo chi meglio degli editori per avere il polso dell’industria editoriale in Italia? Come lo vedete, il futuro del mercato del libro sul medio e lungo periodo?
Più che altro è una domanda complicata: non è facile vedere il futuro, soprattutto in un’epoca in cui non sembra esserci un futuro. Anche perché a me sembra che l’industria culturale in Italia non guardi in avanti: non vuole darsi una prospettiva, non guarda né al medio né al lungo periodo, ma insegue il successo immediato di libri che, si suppone, possano piacere nell’immediato al pubblico. Invece la letteratura ha sempre avuto bisogno di distanza: per sapere se un romanzo è davvero importante, devi aspettare del tempo. Ma questo non significa soltanto che non lo puoi sapere subito, e che quindi non puoi affidarti a categorie come il successo commerciale. Significa anche che nel momento in cui, invece, un libro è davvero importante, quel libro reggerà il mercato nel medio e soprattutto nel lungo periodo. Alcuni libri di Calvino, o – che ne so – di Rodari, ad oggi, dopo cinquant’anni, continuano a vendere centinaia di migliaia di copie ogni anno. Persino La cognizione del dolore di Gadda, vende qualcosa come quindicimila copie l’anno. E noi inseguiamo dei libretti mediocri costruiti, nella migliore delle ipotesi, su di una rassicurante e confortevole idea di storytelling da scuola di scrittura creativa. Quando la letteratura si adagia al paradigma perde qualunque prospettiva, e il compito dell’editoria, come di un po’ tutta l’industria culturale, dovrebbe essere quello di non assecondarla in questo senso. Ma costringerla, piuttosto, al contrario.