Giocare la guerra tra palloni e girotondi

di Fernando Rotondo

La tregua di Natale è un albo illustrato molto bello e profondamente simbolico di Toni Galmés, edito da Donzelli, che narra, anzi fa scrivere da un soldato, Tommy, in una lettera alla madre, di un fatto avvenuto nel freddissimo inverno 1914 nelle Fiandre quando inglesi e tedeschi escono dalle trincee per scambiarsi auguri, scherzi e risate, poi spunta un pallone e viene organizzata una partita con porte fatte di fucili piantati per terra e cappotti ed elmetti appesi; chi vinse non ha importanza. In altra occasione gli inglesi andarono all’assalto calciando un pallone, poi conservato nel museo del Manchester United. I due episodi sono significativi anche perché confermano che già agli inizi del Novecento il calcio era un linguaggio universale (Pasolini dixit) e suggeriscono che esiste un rapporto tra guerra e gioco, almeno nei libri. Dove, purtroppo, la pace è più noiosa, non succede mai niente, vuoi mettere una bella avventura con kriss malesi ieri o spade laser oggi? Di fatto, gioco e avventura stringono un legame scandalosamente attraente tra la guerra e i giovani lettori.

Padri nobili di questo importante filone della letteratura per l’infanzia – la guerra tra bande – sono generalmente considerati I ragazzi della via Pál (1907), che difendono contro le Camicie Rosse dell’Orto botanico il territorio della segheria, il mitico grund, e La guerra dei bottoni (1912), che vede affrontarsi i bambini di due villaggi vicini, peraltro nemici per la diversa tendenza ideologica degli adulti, cattolici e laici. Precedentemente, in Italia, all’alba dell’Unità, De Amicis aveva scritto Cuore (1886), libro risorgimentale incentrato sulla magnifica idea (poi purtroppo delusa) della scuola come pietra angolare della neonata nazione. Due racconti mensili del romanzo, peraltro tutti di grande rilievo letterario, fra i più belli del Novecento italiano, e cioè Il piccolo tamburino sardo (amputato di una gamba) e La piccola vedetta lombarda (sparato al petto), entrambi ammorbati dalla vena pedagogica martiriologico-cimiteriale dello scrittore, segnalavano il passaggio dal personaggio collettivo (la banda) a quello individuale, eroe o eroina.

Protagonista di Piccolo alpino (1926) di Salvator Gotta (autore dell’inno del fascismo Giovinezza) è Giacomino di dieci anni, il quale, dispersi i genitori, viene “adottato” dai bravi soldati con la penna sul cappello e insieme a loro, pure lui in divisa, entra in Vittorio Veneto. Libro di grande successo, piacque molto ai giovani lettori fino al dopoguerra per la scrittura chiara e la trama avventurosa, tuttavia con una impronta patriottico-propagandistica abbastanza celata, ma poi riemersa in piena luce nei successivi L’altra guerra del piccolo alpino (1935) e Il piccolo legionario in Africa Orientale (1938): ovvero, piccoli squadristi e colonialisti crescono.

Dopo la Liberazione, come scriveva Calvino nella prefazione di Il sentiero dei nidi di ragno, nell’edizione del 1964, si era “carichi di storie” con “una smania di raccontare”: narrazioni orali a cui sarebbe seguita la voglia, quasi una necessità di condividerle letterariamente perché non andassero dimenticate. Una genesi, una motivazione e una narratività che sono all’origine delle più significative opere per ragazzi scritte da ex partigiani. Come Guido Petter, che sale in montagna a sedici anni con una pistola e va con i garibaldini, e più tardi scriverà Ci chiamavano banditi (1995), diario in forma di romanzo di quell’esperienza. Come Roberto Denti, combattente in Toscana nelle brigate GL, autore de La mia Resistenza (2010). Ma prima entrambi avevano sentito il bisogno di reinventare, trasfigurare il loro partigianato sotto forma di racconto, il primo in I ragazzi di una banda senza nome (1981) e il secondo in Ancora un giorno. Milano 1945 (2001), dove due bande di preadolescenti partecipano alla lotta armata dei grandi trasformando in azione i loro giochi: nascondersi, spiare, pedinare, correre ad avvertire. Spira, invece, un’aria diversa in testi che usano le armi della fantasia e dell’umorismo: ad esempio, Rodari in La guerra delle campane (in Favole al telefono, 1962) ridicolizza i bellicismi dello Stragenerale Bombone Sparone Pestafracassone e del Mortesciallo Von BombonenSparonenPestasfrakassonen, mentre Dr. Seuss in La Guerra del Burro (1984, Giunti 2002) racconta e disegna il grottesco conflitto fra Zighi e Zaghi su come si imburrano le fette di pane, di sotto o di sopra.

Nella bibliografia resistenziale merita una segnalazione R. Ribelli Resistenza Rock ‘n Roll di Ponti e Hill (Feltrinelli 2021), romanzo in cui accanto a ragazzi compaiono figure storiche come l’intellettuale torinese ebreo Emanuele Artom, torturato e trucidato dai nazisti, e il comandante partigiano Barbato (il siciliano Pompeo Colajanni). L’incipit è spavaldamente epico, rifà Melville: “Chiamatemi Barbato” – dice ai giovani nella piazza di Barge nelle Langhe, in una domenica di settembre 1943, l’uomo in groppa a un cavallo bianco in divisa di ufficiale di cavalleria, basco militare in testa, stivali lucidi. Scende, estrae dallo stivale una baionetta e traccia una lunga linea per terra: “Da questa parte si sta tranquilli…ma complici dei fascisti…Da quest’altra, invece, si prendono le armi e si fanno solo due cose: si uccide e si viene uccisi”. Ci sono guerre che si devono combattere e si deve sapere da che parte stare. Anche i ragazzi.

Sul piano internazionale spiccano le figure di due grandi scrittori di romanzi di formazione in cui la storia e la guerra a volte scolorano in fantasia e avventura. Come avviene, appunto, con Robert Westall in La grande avventura (1990), storia del tredicenne Henry che nella seconda guerra mondiale, orfano e senza casa per un bombardamento, attraversa tutta l’Inghilterra in compagnia di un cane, e in Blitzcat (1989), viaggio fantasioso e coinvolgente di Lord Gort, gatta impavida alla ricerca del compagno umano Geoff al fronte. Una domestica anabasi in fuga da Dresda, rasa al suolo dagli Alleati nel 1945, è quella compiuta tra gli sfollati da Lizzie con mamma e fratellino in groppa all’elefantina Marlene scampata e scappata dallo zoo, in Un elefante in giardino (2016) di Michael Morpurgo. Il quale in La guerra del soldato Pace (2005) aveva riportato il tema alla sua oscena tragicità nel racconto memoriale e straziante dell’ultima notte di un soldato condannato a morte per aver disobbedito a un ordine per salvare il fratello ferito, nella Grande guerra.

Come è possibile, allora, che il terrore infantile sotto le bombe si trasformi in spensierato gioco d’avventure, così come una feroce guerra di trincea in una divertente partita di calcio? Come è possibile parlare di pace narrando di guerre? Soprattutto oggi quando il branco ha spodestato la banda e pure le guerre dei ragazzi sono diventate “ibride”, cyberbullismo. Forse un tentativo di risposta va cercato anche combinando insieme linguaggi diversi capaci di esprimere più larghi, intensi e profondi sentimenti, emozioni, empatie. Ad esempio, come nella canzone distopica di De André Girotondo (testo poi pubblicato in albo con illustrazioni di Echaurren, Gallucci 2003), filastrocca dal ritmo sempre più incalzante, angosciante, ossessivo del ritornello Marcondirondero Marcondiro’ndà che accompagna le domande e risposte dei bambini. Dal ripudio e salvazione: “Se verrà la guerra, Marcondiro’ndero Marcondiro’ndà Sul mare e sulla terra chi ci salverà? / Ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà” – alla lugubre riproposizione – “Giocheremo a far la guerra, Marcondiro’ndà / La guerra è una gran giostra, Marcondirondera” – come una coazione a ripetere, una maledizione irredimibile dell’umanità. Sorride, invece, l’eutopica filastrocca di Rodari “per i bambini di tutto il mondo/ che fanno un grande girotondo,/ con le mani nelle mani,/ sui paralleli e sui meridiani” (1960).

Ancora una canzone di Faber, che ispirerà Mille papaveri rossi di Sergio Badino (Piemme 2023), ci riporta alla disumanità della guerra, tanto più atroce quanto più collocata in un contesto ordinario, sereno, tra campi di grano e lucci nel torrente, dove si consuma la vita breve di Piero che esita a sparare su un nemico. Un barlume di speranza ci apre, infine, Anna Desnitskaya, grande artista, autrice di C’è una casa a Mosca, Transiberiana e Di là del mondo, che ha riparato all’estero quando la Russia ha invaso l’Ucraina: Una stella brilla dentro (Donzelli 2023), splendido albo tanto più significativo quanto più vicino all’essenzialità, sintetizza la desolazione dell’espatrio ed esilio volontari in paese straniero – con colori smunti e figure rapprese su se stesse – che si tramuta nella fiducia in un ritorno alla vita pieno di colori che dà un piccolo manufatto, una stella di carta alla finestra, come c’era nella vecchia casa. La pace dentro forse, con palloni girotondi carta forbici colla.

rotondo.fernando@gmail.com
F. Rotondo è studioso di letteratura per l’infanzia