Girovagando per Kantstrasse
recensione di Arnaldo Bagnasco
dal numero di novembre 2018
Richard Sennett
COSTRUIRE E ABITARE
Etica per la città
ed. orig. 2018, trad. dall’inglese e prefaz. di Cristina Spinoglio
pp. 364, € 25
Feltrinelli, Milano 2018
Una definizione di città dipende dal problema che ci si pone. Richard Sennett, nel suo nuovo libro, si chiede come sia possibile la convivenza in un mondo di diseguali. La definizione che segue è la via d’ingresso al problema posto, risolta in un’endiadi ripresa dal vecchio francese: ville e cité, la città costruita e la città abitata, immaginata, vissuta in tessuti di relazione, luogo di cittadinanza politica. Il problema allora diventa in pratica: come migliorare la convivenza con il modo di costruire.
Sennett è professore di sociologia alla London School of Economics e forse è opportuno chiarire che tipo di sociologo sia. Della sociologia esistono, infatti, generi e stili personali diversi. Una distinzione importante è fra sociologia analitica e sociologia critica. La prima è in cerca di regolarità empiriche e si pone domande sul perché certi eventi o fatti sociali tendono a verificarsi in circostanze specifiche osservabili. I sociologi critici obbiettano che gli analisti sono finiti per essere ossessionati dai dati e non riescono a confrontarsi con i principali problemi del momento; loro adottano approcci più discorsivi e simpatetici, vicini a volte al saggio letterario o filosofico, dove è esplicita l’interpretazione, vale a dire un impegno valutativo personale. L’obiezione tipica degli analisti nei loro confronti è: le cose stanno andando davvero così, come un critico ci dice? I tipi estremizzano le differenze, e troviamo spesso sociologi che si muovono fra i due generi. Il modo individua uno stile personale.
Sennett è un sociologo critico, come mostra anche il sottotitolo del nuovo libro. Eppure, qui come anche nei suoi libri precedenti, è evidente il ricorso a riferimenti empirici, non semplicemente esemplificativi. Un esempio per tutti: L’uomo flessibile (Feltrinelli, 1999), è una denuncia delle conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, che si avvale anche di sue ricerche etnografiche. Per capire bene lo stile di Sennett bisogna però aggiungere il riferimento a un altro genere: la sociologia applicata; molti sociologi sono impegnati in attività pratiche in ambito privato, o nel sostegno e nella progettazione di politiche pubbliche. Per Sennett questo impegno è così importante che non esita a definirsi urbanista, con riferimenti continui nel libro anche alle attività applicative, e con ricchezza di notazioni tecniche precise. Le sue competenze e attività sono del resto così ampie e variate, al punto di farlo sentire stretto nella definizione di sociologo.
La ricchezza di riferimenti a fenomeni e giudizi lontani fra loro nello spazio e nel tempo, con richiami a tradizioni intellettuali diverse, non compone come si potrebbe temere un quadro rapsodico dei rapporti fra ville e cité; questo perché sono subito dichiarate le intenzioni e le ipotesi di un percorso seguito poi con continuità.
Storta, aperta, modesta: con questi tre aggettivi è fissata all’inizio una prospettiva per l’etica della città. Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può costruire nulla di completamente diritto (Kant); la città fatta di tanti uomini diversi è dunque storta, c’è un’asimmetria intrinseca fra cité e ville. Che fare allora? La visione di una città aperta è annunciata con consonanze filosofiche, scientifiche, professionali, e Sennett racconta di averla maturata nell’esperienza al Media Lab del Mit, “paradiso di artigiani”, laboratorio aperto in cerca di domande nuove, non di verifiche di domande chiuse, alle quali rispondere sì o no. Una visione modesta è infine l’aspetto più delicato, perché intesa da giovane in modo piuttosto radicale, sulla scia di Jane Jacobs, per la quale “le forme urbane emergevano lentamente e gradualmente, secondo le lezioni dell’uso e dell’esperienza”. Sennett se ne allontanerà quando, come consulente per programmi delle Nazioni Unite, incontrerà i problemi pratici di urbanizzazione nei paesi del Sud del mondo, e la questione per lui diventerà come conservare a quella scala, con la drammatica necessità di azioni innovative decise e rischiose, “uno spirito di modestia e discrezione”, collaborativo e autocritico. Rilevo di passaggio come il libro abbia anche l’andamento di autobiografia intellettuale, che arriva a inserire l’esperienza di rieducazione motoria dopo un ictus con lunghe passeggiate in Kantstrasse a Berlino, occasione di nuove osservazioni su come i residenti interagiscono con gli estranei, mantenendo anche le distanze: dal girovagare in quella strada, una specie di condensatore delle sue indagini, Sennett tirerà le fila riaprendo una discussione finale sull’etica della città.
La prima parte è dedicata alla nascita dell’urbanesimo moderno. La pratica professionale dei grandi urbanisti nell’Ottocento aveva l’ambizione di collegare il mondo vissuto e quello edificato, imponendo alla città forme diverse di ordine, ma nessuna di esse bastò a risolvere i problemi affrontati. Il secolo seguente “nel modo di pensare e costruire la città, cité e ville si sono voltate le spalle. Gli urbanisti sono diventati una comunità chiusa”. La seconda parte è dedicata alla difficoltà dell’abitare nelle grandi città, a come si manifesta “il peso degli altri”, con attenzione agli effetti ambivalenti della tecnologia e l’individuazione paradigmatica di due tipi di smart cities: chiusa e prescrittiva la prima, aperta, che incoraggia a pensare la seconda; nella convinzione ribadita che “la città sana è un sistema aperto”. L’ultima parte esplora in più modi come urbanisti e abitanti possono insieme affinare le capacità di far fronte alla complessità, e si conclude riassumendo l’etica della città aperta con una massima di Robert Venturi: “la ricchezza di significati anziché la chiarezza del significato”. Aggiungerei: a patto di mantenere la chiarezza necessaria per un’espressione appropriata della ricchezza di significati.
A chi raccomandare la lettura del libro di Sennett?
In conclusione: a chi raccomandare la lettura del libro? Ad architetti e urbanisti, naturalmente, molti dei quali lo hanno già letto e commentato. Possiamo ripetere al riguardo quanto Tomás Maldonado aveva scritto nell’introduzione a un precedente libro di Sennett, per molti aspetti ripreso nel nuovo (La coscienza dell’occhio, Feltrinelli, 1992): Maldonado trovava nel libro osservazioni molto pertinenti su argomenti al centro del dibattito architettonico e urbanistico, sottolineando la novità del ventaglio di discipline a cui Sennett fa riferimento.
Ai sociologi, per diversi motivi, ne indico alcuni. Potranno trovare una quantità di suggerimenti per percorrere la strada che James Coleman raccomandava come presidente dell’American Sociological Association, dicendo che bisogna addestrarli a essere architetti in grado di contribuire al disegno delle istituzioni sociali; il libro poi è anche un contributo sul tema del cambiamento sociale, e va conservato nello scaffale su tale argomento. A loro, perché sviluppino il punto, giro infine una recensione di Justin McGuirk sul “New Yorker” (26 aprile 2018) che rimprovera a Sennett “the elision of the political”. La critica è forse troppo secca, può essere ripresa in più modi, ma merita attenzione. Infine, un invito per tutti. Non solo si tratta di una lettura affascinante, dove s’imparano una quantità di cose che ci riguardano. Soprattutto, però, perché la filosofia dell’apertura, incontrata da Sennett giovane al Media Lab del Mit, ritrovata nel dilemma ville-cité, è raccomandabile in un’epoca di minacciose chiusure culturali e politiche.
arnaldo.bagnasco@unito.it
A Bagnasco è professore emerito di sociologia all’Università di Torino
Inno alla città storta: sul numero di novembre 2018 anche Cristina Bianchetti commenta Costruire e abitare di Richard Sennett.