Partenze a cascata viste dall’ultimo miglio
di Ilda Curti
dal numero di febbraio 2019
Stephen Smith
FUGA IN EUROPA
La giovane Africa verso il vecchio continente
pp. XXVIII-200, ed. orig. 2018, trad. dal francese di Piero Arlorio € 20,
Einaudi, Torino 2018
Carri funebri di lusso. Così si intitola un racconto dello scrittore nigeriano Uwem Akpan citato da Stephen Smith per raccontare la complessità del giovane continente africano e delle prospettive nel suo prossimo futuro. È la storia di Gabriel/Djibril, sedicenne nigeriano – metà cristiano e metà musulmano, metà del Sud e metà del Nord – che sale su un bus di cristiani in fuga durante i tumulti religiosi nel nord della Nigeria. Gabriel/Djbril compra un regolare biglietto ma trova il suo posto occupato da un vecchio capo tribale che si rifiuta di cedergli il posto. Due giovani donne intervengono in aiuto, un’anziana pacatamente tenta di far ragionare il vecchio. Si consuma uno scontro che porterà al massacro: tutti contro tutti. Giovani, anziani, cristiani, musulmani, donne, uomini. Il simbolismo di questa storia è evidente: i posti confortevoli sul bus che porta alla salvezza sono inferiori al numero dei passeggeri. Non basta avere un biglietto per avere il posto. Bisogna lottare, combattere, schierarsi, stringere alleanze mutevoli giocando su tutti i registri identitari che contrappongono tutti ed ognuno in una lotta a saldo zero: giovani e vecchi, ricchi e poveri, civili e militari, governanti e governati, sudisti e nordisti, cristiani e musulmani. Se questo racconto riassume simbolicamente la questione, i numeri citati da Stephen Smith raccontano una verità incontrovertibile: “La migrazione africana è stata politicizzata prima ancora di essere stata analizzata” e questa lettura miope impedisce di coglierne la portata epocale. Il testo di Smith – un vero trattato di geografia umana analitico e denso – fissa una data: 2050.
Analizza un prima ed un oggi a partire dal trauma demografico che il continente africano ha subito nei secoli delle tratte e della -colonizzazione. Fino al 1930 l’Africa aveva 150 milioni di abitanti, l’8 per cento della popolazione mondiale. Nel frattempo il resto del mondo si popolava a ritmi vorticosi: l’85 per cento della crescita demografica globale dall’inizio della storia dell’umanità si è verificata a partire dal 1800. In poco più di due secoli l’umanità è passata da uno a sette miliardi e il continente africano, fino a pochi decenni fa, è quello cresciuto più lentamente. L’umanità ha raggiunto lo zenit della fecondità negli anni sessanta dello scorso secolo e da allora è iniziato il declino demografico mondiale: non solo i paesi “sviluppati” – Europa, Giappone, Usa – invecchiano velocemente ma anche l’America Latina e parte del continente asiatico. L’Africa, oggi, è l’eccezione demografica: il ritmo di crescita fino al 2050 sarà del 2,5-3 per cento, grazie a una serie di congiunture storiche ed economiche. Dai 150 milioni di abitanti del 1930 a 1 miliardo nel 2010. Due miliardi nel 2050, il 25 per cento della popolazione mondiale; nel 2100 gli africani saranno il 40% della popolazione mondiale: 4 miliardi su 10 miliardi complessivi. Il 2050 è la data su cui costruire analisi e scenari, perché rappresenta, oggi, la prospettiva di chi sta nascendo proprio adesso. Qui e in Africa.
Smith – analista e profondo conoscitore dell’Africa sub-sahariana, in particolare della Nigeria – sovverte con numeri e statistiche le dispute “tra sordi-afro ottimisti e afro-pessimisti” che descrivono “un’Africa immaginaria, quella dei parchi tematici che si sono costruiti: uno per vecchi seduti ai bordi della vita, lato sole al tramonto; l’altro un parco di iniziazione per nuovi arrivati che, all’alba, credono tutto possibile”. L’Africa sospesa tra Karen Blixen e White Material, l’Africa dello sguardo degli altri. L’Africa immutabile, marginale, statica, l’Africa degli immaginari europei fissi tra savane e bambini denutriti. È indispensabile adottare uno sguardo più sofisticato, analitico, scrive Smith. Scevro di retorica e di falsi immaginari. È vero che l’Africa continuerà, nei prossimi decenni, a “essere globalizzata invece di prendere parte attiva alla globalizzazione in corso”. Però l’effetto di scala indotto dalla fortissima crescita demografica sta producendo mutamenti irreversibili. Intanto per la legge dei grandi numeri: aumentano i cosiddetti “scampati alla sussistenza”. Più di 130 milioni di africani, oggi, dispongono di circa 5-20 dollari al giorno e sono inseguiti da circa 200 milioni che ne guadagnano 2-5. Non si tratta propriamente della crescita di una classe media, però si tratta di un enorme mercato economico, da un lato, e un’enorme spinta alla mobilità dall’altro. Sono giovani e “ci sono poche probabilità che questa moltitudine attenda pazientemente il suo turno allo sportello della prosperità” ovvero che rinunci all’idea di occupare un posto appena confortevole su un bus che porti da qualche parte.
Ecco che si verificano quelle che Smith definisce, smentendo gli allarmi sull’invasione, le “partenze a cascata: dal villaggio alla città più vicina, dalla città di provincia alla capitale, dalla capitale nazionale a una metropoli regionale e, oltremare, perlopiù in Europa”.
Le analisi dei flussi migratori verso l’Europa risentono però di alcuni trompe-l’oeil che falsano l’interpretazione. Uno è il prisma post-coloniale che sovrastima il tropismo degli ex-colonizzati verso le ex-madrepatrie, che non considera la spinta a modelli di vita globalizzati che in realtà hanno omologato modi, desideri e stili di vita: “Le nuove generazioni africane vedono il mondo qual è e sanno che in Europa a contare è la Germania e a livello globale sono gli Stati Uniti e la Cina”. Il secondo trompe-l’oeil è il “miserabilismo cieco nei confronti dell’Africa” che conduce in errore una parte dell’opinione pubblica dei paesi ricchi che vede esclusivamente nella povertà assoluta la spinta a emigrare. Per scatenare la “corsa all’Europa” – ultimo miglio delle partenze a cascata – ci dice Smith, devono verificarsi due condizioni. La prima è il superamento di una soglia di prosperità minima per un numero consistente di africani in un contesto di rilevante diseguaglianza reddituale tra Africa ed Europa. Una moltitudine di giovani privi di prospettiva – dentro “l’orizzonte ristretto di una visione tunnel della vita” – ma in grado di raggranellare risorse dalla parentela allargata affronta la sfida del viaggio, spesso clandestino e pericolosissimo. La seconda è l’esistenza di comunità diasporiche che fungono da “camera di decompressione” all’arrivo, come è sempre successo nei grandi movimenti migratori della storia.
Lo stress ecologico, le guerre e la violenza quotidiana sono delle condizioni aggravanti. Ma chi cerca di attraversare il Mediterraneo e affronta il rischio enorme del viaggio, è il più giovane e il più forte. “I più poveri dei poveri non hanno i mezzi per migrare”. In modo molto lucido Smith affronta i paradossi con cui i paesi ricchi affrontano il fenomeno tra interessi geopolitici, registri del rifiuto, politiche miopi di aiuti allo sviluppo, “buonismi” astratti e egoismi nazionalisti con il culto del sangue e del suolo. Cerca di offrire una risposta che -“de-moralizzi” il dibattito sulla migrazione africana in Europa: “Non si tratta di scegliere tra il Bene e il Male ma di governare la polis nell’interesse dei suoi cittadini. Le migrazioni sono vecchie come il mondo e non cesseranno”. Prospetta quindi alcuni scenari: dal trionfo improbabile dell’universalismo umanista dell’Eurafrica alla Fortezza Europa che conosciamo, che “preannuncia una battaglia persa in partenza per una causa ignominiosa” e votata al fallimento.
Conclude con una domanda -aperta, quella che dovrebbero porsi tutti i policy makers globali: “mi è accaduto di pensare ad un’Africa che beneficiasse di tutta l’energia che oggi si mobilita per girarle le spalle. A cosa assomiglierebbe?”. Vale a dire: se si affermasse una gestione morbida dei flussi migratori e si investisse realmente in una possibile e vera prosperità dell’Africa, cosa succederebbe nel 2050? Non si disegnerebbero, per tutti, scenari migliori?
Ilda.curti@gmail.com
I. Curti è esperta di politiche migratorie, formatrice e project designer