Ripensare responsabilità e procedure
di Simone Pollo
dal numero di dicembre 2017
Secondo Roberto Calasso la figura del “turista” sarebbe la maschera sotto la quale si nasconde l’essere umano secolarizzato in tutta la sua inconsistenza. Nell’attività del turista si manifesterebbe l’annullamento delle differenze e delle specificità culturali che caratterizzerebbe l’epoca attuale (L’innominabile attuale, Adelphi, 2017). Con spirito meno cupo sulla contemporaneità e ben più favorevole al turismo, anche Corrado Del Bò, filosofo alla Statale di Milano, si occupa del fenomeno nel suo Etica del turismo (Responsabilità, sostenibilità, equità, pp. 144, € 15, Carocci, Roma 2017). Il turismo è senza dubbio un’attività che caratterizza il nostro tempo: per quanto l’Homo sapiens sia una specie da sempre dedita a spostamenti e migrazioni, mai come nell’epoca attuale gli esseri umani hanno viaggiato per semplice curiosità, desiderio di conoscenza o, più semplicemente, per piacere. A fronte di milioni di esseri umani che dalle regioni più povere del pianeta diventano migranti in cerca di una vita più dignitosa nelle nazioni più ricche, da queste ultime altri milioni di esseri umani periodicamente assumono i panni dei turisti per visitare luoghi diversi da quelli in cui risiedono abitualmente. Migranti e turisti appaiono come due gruppi umani agli antipodi: entrambi viaggiano, ma gli uni per sfuggire alla sofferenza, gli altri per ricercare il piacere. Se i primi sono giustamente oggetto di preoccupazione umanitaria e di riflessione sui nostri doveri di accoglienza, i secondi sembrano godere sempre più di una pessima fama. Gli abitanti di Barcellona che scrivono sui muri “Turists go home / Welcome Refugees” non sembrano così lontani dal sospetto di Calasso sulla categoria del turista. Questi sembrerebbe incarnare i peggiori vizi della contemporaneità occidentale: è superficiale, consumatore, presuntuoso e, a suo modo, colonialista.
Eppure, ci ricorda Del Bò, alle origini del turismo c’è una istanza emancipatoria. Se, infatti, fino alla metà XIX secolo il viaggio per diletto e conoscenza era un privilegio delle élite, il turismo così come lo conosciamo oggi è l’esito della invenzione di una nuova dimensione, quella del tempo libero, che ha consentito a milioni di lavoratori di spendere il tempo non lavorativo in modi qualitativamente migliori rispetto al passato. L’invenzione del tempo libero e l’accesso al viaggio hanno significato possibilità di conoscenze e piaceri nuovi per milioni di persone che hanno potuto e possono fare esperienze oltre i pochi chilometri quadrati che spesso hanno rappresentato l’unico orizzonte di esperienza dei propri antenati. È vero, tuttavia, che oggi il fenomeno del turismo ha dimensioni e caratteristiche tali da sollevare interrogativi circa le responsabilità che accompagnano questa attività. Il lavoro di Del Bò si articola su queste domande, andando a occupare uno spazio di riflessione inedito nel panorama culturale italiano (e poco frequentato anche altrove). Del Bò articola il suo lavoro con metodologia che testimonia quanto l’analisi filosofica (almeno quella di un certo tipo) sia in grado di illuminare aree di esperienza umana ordinaria, di portare al loro interno riflessività e di far emergere questioni morali altrimenti taciute. Se è vero, infatti, che il turismo rappresenta almeno prima facie un’attività apprezzabile per il piacere e i vantaggi che porta a chi la pratica, è altrettanto vero che il suo esercizio è denso di questioni morali che spesso non ci appaiono evidenti nel momento in cui saliamo su un aereo per visitare una città straniera o per una settimana di trekking su una lontana catena montuosa.
Responsabilità, sostenibilità e equità
L’idea di senso comune che vorrebbe che ogni viaggio turistico fosse un beneficio sicuro per i luoghi visitati e i suoi abitanti è tanto diffusa quanto discutibile. È vero che ogni volta che visitiamo un luogo, apparentemente, portiamo ricchezza ai suoi abitanti in cambio della loro ospitalità e dei loro servizi, ma questo scambio potrebbe non essere equo sia perché il prezzo pagato potrebbe essere troppo basso sia perché i proventi potrebbero essere distribuiti in modo non accettabile. È su tali questioni che si deve concentrare anzitutto un’analisi etico-filosofica della pratica del turismo. Non basta sostenere che senza i turisti gli abitanti dei luoghi visitati starebbero comunque peggio. Anzitutto, ciò potrebbe non essere necessariamente vero e, anche se lo fosse, questo fatto non giustifica una distribuzione non equa. Ed è sulle ragioni e sui criteri di questa equità che si concentra parte sostanziosa dell’analisi di Del Bò, che fornisce ai suoi lettori non certo un manuale di comportamento (cosa che del resto la buona etica filosofica non dovrebbe mai fare), ma uno strumento che aiuti gli individui a pensare alle proprie responsabilità e le istituzioni a riorganizzare le proprie procedure. Un’analoga operazione di analisi viene svolta anche rispetto a un’altra questione problematica del turismo, ovvero quella della sua sostenibilità rispetto alle risorse ambientali (in senso ampio) che sono consumate e modificate da tale attività. Uno dei paradossi del turismo, infatti, risiede nel fatto che l’interesse per un luogo è dato dalla sua autenticità, ma che l’esercizio di questo interesse mette a rischio e corrompe proprio tale autenticità.
Frontiere etiche e geografiche del turismo
Ci sono poi questioni più difficilmente formalizzabili nella cornice di un’analisi etico-filosofica sulla giusta distribuzione e il consumo equo e sostenibile delle risorse. Sono problemi che riportano la discussione a un livello più fondamentale sulla natura del turismo e il suo posto nella nostra forma di vita. Sono le questioni che Del Bò analizza interrogandosi sui temi del turismo e delle differenze culturali e sul se e come il turismo possa essere legittimamente esercitato in determinati luoghi e il significato che esso assume in contesti differenti, come Auschwitz o le scogliere davanti alle quali giace il relitto della Costa Concordia. Questi temi chiamano in causa non solo nozioni come quella di “rispetto” e “dignità”, ma, a un livello anche più fondamentale, portano a interrogarsi sui caratteri strutturali del turismo. All’interno di un’analisi elaborata, Del Bò evidenzia come a fare una differenza rilevante in tali situazioni sia il tempo. Non è la stessa cosa scattarsi un selfie davanti alle piramidi e farlo davanti alle baracche di Auschwitz. Parte di questa differenza è data dal tempo trascorso, il quale – che ci piaccia o meno – storicizza i mali morali che sono avvenuti in quei luoghi e li riconcettualizza. Possiamo, infatti, guardare allo schiavismo che ha consentito le piramidi come qualcosa di ormai lontano da noi, ma la stessa distanza non c’è, e non deve esserci, rispetto al genocidio compiuto ad Auschwitz.
C’è un’altra rilevanza del tempo che può apparire interessante nel momento in cui discutiamo del turismo come attività degli esseri umani contemporanei. È una dimensione che Del Bò non esamina, in quanto esterna agli scopi della sua analisi, ma che ci riporta in qualche modo all’idea di Calasso del turismo come carattere dell’umano contemporaneo. Il turismo è una pratica recente, vecchia al più due secoli, e nasce nel contesto di un mondo organizzato in stati nazione. Se il fenomeno drammatico delle migrazioni ci mette di fronte all’inadeguatezza di un pianeta frammentato in stati nazionali e ci costringe a ragionare su cosmopolitismo e cittadinanza, anche i problemi etici del turismo ci appaiono come questioni incardinate in uno scenario in cui le appartenenze locali hanno ancora un valore predominante. Si può essere turisti, e migranti soprattutto, solo se ci sono luoghi in cui siamo stranieri, luoghi in cui le differenze della cultura di nascita segnano il confine fra avere certi diritti e non averne, fra l’essere cittadini e l’essere ospiti (più o meno graditi). Al netto di ogni utopia, ci si può chiedere – e magari auspicare – se il trascorrere del tempo non renderà obsolete le categorie di turista e migrante e con esse molti dei problemi morali che le accompagnano.
simone.pollo@uniroma1.it
S Pollo insegna bioetica presso l’Università la Sapienza di Roma