Conversazione con T.C. Boyle, definito lo scrittore più vicino a Mark Twain
di Ennio Ranaboldo
dal numero di giugno 2016
Forse nessuno scrittore, tra i viventi, sa trasformare come riesce a T.C. Boyle le ossessioni, le paure, le colpe ataviche, i riti e le tribù, gli eroi ed il fanatismo dell’America contemporanea – ma anche la sua inesauribile diversità, la ricchezza del suo paesaggio, naturale ed umano – in una narrazione così robusta ed avvincente.
Il prolifico autore, nato nel 1948 nello stato di New York ma da anni residente a Santa Barbara, torna con il suo ultimo romanzo (The Harder They Come, p. 400, Ecco, New York, 2015) ancora inedito in Italia, nel nord della California. Con una storia brutale, in cui si intersecano rotte di collisione intorno ad uno stato permanente di crisi ed insicurezza: famiglia e ansie della classe media, segnali dalle prode della disuguaglianza, legalità contestata ed autoritarismo, criminali organizzati e ribelli fuori controllo.
Ispirata a fatti accaduti ci sono, al centro della vicenda, le frange antagoniste dei cosiddetti “cittadini sovrani”, in odore di terrorismo domestico e da anni sulla lista nera dell’FBI. A questa ideologia anti-stato aderiscono un figlio adulto (Adam Stensen, il protagonista), che si immedesima, fino allo sdoppiamento della sua fragile persona, con John Colter, il leggendario spirito libero ed esploratore ottocentesco; e la sua più matura amante (Sara), sebbene con significative differenze tra i due: paranoico e violento, il giovane; refrattaria alle regole, la donna. Il terreno è quello dell’alienazione cronica, dalla collettività e da se stessi: sentimenti e comportamenti torbidi che rendono irrespirabili i rapporti tra un padre e un figlio, tra un uomo e la sua pur devota compagna. Insomma, Adam si avvierà lungo la lenta ed allucinata deriva peculiare agli innumerevoli misfit – si pensi agli “spostati” di Melville, Faulkner, Flannery O’Connor, ma anche di Mark Twain e Philip Roth – di cui abbonda la letteratura americana degli ultimi due secoli. E la parabola romanzesca, inevitabilmente tragica, lascia il lettore attonito, brancicante nel vuoto post traumatico del conflitto tra libertà individuali (e il loro pervertimento) e le norme dello stato di diritto, a volte non meno insidiose.
Il romanzo apre con una sequenza così cinematica che, mentre leggiamo, vediamo le immagini materializzarsi convulsamente sullo schermo della nostra mente. In un Costarica molto poco da cartolina, la vacanza dei coniugi Stensen – Sten, il padre di Adam è un pensionato inquieto e benestante, veterano del Vietnam – si trasforma repentinamente in incubo, quando il gruppo di turisti di cui, con la moglie, fa parte subisce un’imboscata banditesca nel mezzo della foresta. Sarà l’istinto dell’ex soldato a salvare, cruentemente, la situazione. Ma a questa iniziale violenza difensiva seguirà ben altro orrore.
The Harder They Come è il titolo di un celebre poliziesco giamaicano del 1972, diretto da Perry Henzell, e con Jimmy Cliff attore. Cliff è anche l’autore dell’omonima canzone reggae da lui stesso interpretata nel film. Nel testo, il verso successivo a quello che dà titolo al romanzo, legge: the harder they fall, one and all, traducibili, approssimativamente, con Più loro picchieranno duro, più duramente cadranno, tutti quanti. Titolo del romanzo ed epigrafe di D.H. Lawrence (“L’essenza dell’anima americana è dura, alienata, stoica, e assassina. Non si è ancora mai disciolta”), sono entrambi molto evocativi: esiste ancora un’anima americana? Si sta forse sciogliendo, mutando o semplicemente resistendo?
Non credo di aver titolo per rispondere a questa domanda, non essendo né un sociologo né un prete. Quello che mi piace della citazione di D.H. Lawrence è il concetto che propone, che mi consente di esplorare cosa esso significhi in profondità, e il suo grado di verità. Il titolo, naturalmente, è invece una sorta di sfida aggressiva: “The Harder They Come, The Harder They Fall”: come dire, fatevi sotto, non (ho) abbiamo paura di nessuno.
Lo stimolo della cronaca, le esperienze personali, la portata e il metodo del suo lavoro di ricerca: cosa viene prima e come si trasforma in narrazione, specialmente in questo libro?
Purtroppo, si continuano a ripetere innumerevoli casi, negli Stati Uniti, di individui armati che sfogano il loro odio contro la società (così come fanno i fondamentalisti islamici negli USA e in Europa). Ne ho indagati un certo numero, ma alla fine ho scelto di concentrarmi su una storia realmente accaduta nel 2011, in California, dove ho ambientato il romanzo, così come avevo già fatto con il mio secondo libro, Budding Prospects (1984, inedito in Italia).
Orgoglio individuale e “uomini della montagna”: in che modo Adam metabolizza elementi mitizzati dell’identità americana, in violenza assassina? È la corruzione del sogno americano. Com’è accaduto?
Come in Budding Prospects, una versione comica del sogno americano, che racconta anche di un’operazione anti-autoritaria (ed illegale) di coltivazione di marijuana, esploro esattamente questo problema. Forse la risposta sta nel fatto che siamo una nazione giovane, edificata dai pionieri, e sulla violenza che questi inflissero alla popolazione indigena e alla stessa terra. Che è la ragione per cui la storia di Colter è così importante per il romanzo, in quanto fornisce una dimensione storica alla narrazione.
The Harder They Come mi pare innanzitutto una profonda riflessione sulla violenza: quella della società e dell’individuo. Una specchio dell’altra?
Sì, certo, e concordo con questa caratterizzazione: il libro è certamente una riflessione sulla violenza in America. Come ogni cittadino (e artista) coinvolto e preoccupato, devo poter occuparmi di questi temi, nello sforzo di illuminarli e comprenderli.
È anche un romanzo con scarsa o nessuna traccia della sua abituale ironia. Perché?
Ho appena terminato il mio ventiseiesimo libro, e sono quasi alla fine del ventisettesimo. Ogni storia trova la propria modalità narrativa. Credo poi che un vero artista debba sempre superare se stesso, recarsi creativamente in luoghi mai frequentati prima. Questo detto, The Terranauts, il mio prossimo romanzo, affonda le sue radici nelle mie abituali preoccupazioni ecologiche, e fa grande uso di satira ed umorismo tetro.
La natura come protagonista, violata ma anche maestosa; rifugio per attività illecite, ma anche via di fuga e, forse, di redenzione. Lo conferma?
Assolutamente. Questo è forse il solo tema ricorrente di tutto il mio lavoro. Siamo animali e gli animali devono vivere e apprezzare la natura. Ma siamo anche esseri spirituali: il conflitto è aspro, veramente catastrofico. Pensiamo alla Chiesa Cattolica!
Fame d’amore e impossibilità di amare, e le pulsioni di morte che ne derivano. E tuttavia, leggendo, ho percepito una forte corrente empatica per i personaggi, anche per lo stesso Adam. E’ così?
Sì, il punto di vista, la narrazione in prima persona, mi consentono di abitare dall’interno, per così dire, la psiche dei tre protagonisti. Adam, l’uomo armato; Sara, la sua innamorata; e Sten il padre del ragazzo. E sì ancora una volta: la storia di Sara è in grande misura una storia d’amore.
La cito: “Il romanzo è una seduzione; il lettore deve essere sedotto”. Ce lo spieghi…
Quello che intendo è che arte e politica devono rimanere ben separate. Non si possono imporre al pubblico convincimenti ideologici ed ortodossie. I lettori devono essere sedotti fino alla sospensione del giudizio, entrare nell’opera narrativa alla pari con il suo autore.
Qualcosa da segnalare del suo rapporto con i lettori, traduttori ed editori italiani?
Per quale ragione i miei libri siano molto amati in alcuni paesi, e non in altri, rimane per me un mistero. Ho sempre avuto ottimi e durevoli rapporti con i miei editori italiani, e questo è per me molto importante. Spero che continui così, e che tutti i miei libri possano essere disponibili in traduzione. Quando mi ha proposto l’intervista ignoravo il fatto che sono ancora, spero temporaneamente, senza un editore italiano per The Terranauts!
Qualche parola su The Terranauts…
È un libro che torna, per così dire, alle mie radici Verdi. È ispirato a una vicenda reale e ben nota: gli esperimenti della “Biosphere II” nel deserto dell’Arizona, all’inizio degli anni Novanta. Una struttura di 13.000 metri quadrati, eretta vicino a Tucson, che ospitava 3.800 specie di fauna e flora, e otto volontari, quattro uomini e quattro donne. Avrebbero dovuto vivere in isolamento completo per due anni, il primo di cinquanta ritiri sperimentali in programma, della stessa durata. Cosa ho imparato, a parte le ovvie lezioni ecologiche? Quanto davvero sexy sia finire in un luogo sigillato ermeticamente, con quattro membri senza legami del sesso opposto, in un Paradiso Terrestre fabbricato dall’uomo.
E sugli scrittori che più ama…
Adoro l’umorismo perfido di Mark Twain e mi sento onorato di essere stato spesso paragonato a lui. Ma, poiché questa intervista è rivolta al pubblico del suo paese, vorrei citare un autore italiano che ha avuto un ruolo fondamentale per il mio approccio alla scrittura, specialmente per quei racconti che ho scritto in modalità folclorica, per così dire. Si tratta di Italo Calvino. Nel mio prossimo libro di racconti, c’è un lungo pezzo che è un aggiornamento e una riscrittura del suo racconto “La formica argentina” ambientato, naturalmente, in Italia.
Com’è la vita da Professore Emerito (e l’insegnamento) alla University of Southern California?
Dopo trentasette anni alla University of Southern California, dove ho fondato il programma di scrittura creativa, ho lasciato l’incarico dal primo gennaio di quest’anno (non mi piace il termine “pensionato”, preferisco “pre-morto”). Insegnare, come i lettori sapranno dai miei commenti pubblicati altrove e nell’Introduzione a T.C. Boyle Stories II, mi ha salvato dall’egocentrismo.
La sua speranza più grande per l’America, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali dell’8 novembre?
La mia grande speranza è che il programma dei democratici – ambiente, educazione, multiculturalismo, uguaglianza – continui a rinforzarsi così che la presa soffocante sulle nostre vite, da parte delle grandi imprese globali, possa allentarsi, se non finalmente lasciarci liberi.
E Ranaboldo è saggista