Il potere rivelatore dell’arte e l’invisibilità dell’artista-artigiano
di Alessandro Zaccuri
Svetlana Aleksievič
Opere
Guerre
a cura di Sergio Rapetti,
pp. 1040, € 35,
Bompiani, Milano 2022
Tra la realtà così come sembra manifestarsi (la ferocia di una battaglia, il ghigno di un dittatore, lo sgomento suscitato da una sciagura) e il racconto che ciascuno di noi può tentare di offrirne interviene sempre uno scarto, tanto più efficace quanto più impercettibile. Ed è in questa minima differenza che per Svetlana Aleksievič risiede la funzione dell’arte. Funzione etica prima ancora che estetica, anzi: estetica solo a condizione di essere principalmente etica, e cioè dettata da un’urgenza nello stesso tempo personale e civile. La scrittura sarà anche un’attività individuale, ma alla sua origine si colloca necessariamente un’assunzione di responsabilità nei confronti della parola e di coloro ai quali quella stessa parola si rivolge. Si scrive da soli, dunque, ma non si è mai soli quando si scrive, come Aleksievič ha ricordato nel discorso pronunciato nel 2015, in occasione del conferimento del premio Nobel. Attorno a noi ci sono sempre le voci degli altri, c’è sempre una folla di narratori e testimoni il più delle volte inconsapevoli, o addirittura involontari, le cui storie resterebbero consegnate al silenzio se l’arte non provvedesse a riscattarle.
L’arte, non l’artista. Ancora una volta la distinzione è sottile, ma decisiva, perché rimanda all’elemento artigianale che costituisce la premessa irrinunciabile della poetica elaborata sul campo dalla scrittrice bielorussa. La quale, diversamente da quanto accade di solito in casi simili, non fa nulla per dissimulare la componente giornalistica del suo metodo. Dal punto di vista formale libri come La guerra non ha un volto di donna, Gli ultimi testimoni e Ragazzi di zinco (ovvero la trilogia delle Guerre, che occupa il primo volume delle Opere allestite da Bompiani su indicazione dell’autrice) cadono sotto la fattispecie del reportage, anzitutto perché ne condividono il metodo, che comporta la raccolta e la successiva sistemazione di un materiale documentario il più possibile ampio. Per Aleksievič si tratta principalmente di interviste, e già questa potrebbe suonare una stranezza, perché l’intervista gode della cattiva fama di essere in sostanza un articolo rubato. Il reporter ascolta, prende nota, spesso registra, alla fine trascrive, secondo un procedimento tendenzialmente impersonale. Quello che di norma viene patito come un limite, nello stile di Aleksievič diventa invece l’occasione per far trionfare il potere rivelatore dell’arte. Anche l’invisibilità dell’artista-artigiano è una condizione di privilegio, non di marginalità. Purché l’invisibilità sia autentica e non l’esito di un gioco di specchi. Per rendersene conto basta tornare ai testi di un’altra celebre intervistatrice-scrittrice, Oriana Fallaci, che ogni volta fa finta di nascondersi per essere sicura di spiccare ancora di più. Le sue Interviste con la storia poggiano sull’artificio della “sbobinatura”, brutta espressione gergale che sta a indicare la trascrizione del tale e quale. Si accende il microfono all’inizio della conversazione, lo si spegne al termine e tutto quello che passa nel mezzo va a finire nel corpo dell’intervista. Un artificio, appunto, una finzione che, proprio per la sua pretesa di verosimiglianza, risulta smaccata e fuorviante. L’intervistatrice non esce mai di scena, più spesso si compiace di occuparne il centro con le sue dichiarazioni di obiettività e di irriducibilità al compromesso.
Ma il punto è che la scrittura, come il racconto, è sempre il risultato di un compromesso. Le voci che si susseguono nei libri di Aleksievič non avanzano alcuna pretesa di obiettività. Ciascuno parla per sé, riferisce quello che ha visto e vissuto, non ha la minima intenzione di verificare e confrontare la propria versione, per il semplice fatto che quella storia è ormai tutto ciò che possiede e da cui non può più separarsi. A questa ostinazione grandiosa – sulla quale si fonda il fascino dell’autofiction in ogni sua declinazione – Aleksievič contrappone l’umiltà dell’ascolto. In un mondo nel quale ci si impone solamente dicendo di sé, la scrittrice si propone di scomparire o, meglio, di farsi trasparente rispetto alle parole degli altri. Non nega la propria personalità, ma la mette a servizio dell’arte, attraverso una rete fittissima di variazioni ritmiche, di riprese lessicali, di anticipazioni e digressioni narrative. Anziché imitare la voce dell’interlocutore, la purifica, permettendoci di ascoltarla come merita di essere ascoltata. È la narrative nonfiction nella sua forma più solenne, che assegna alla ricostruzione di un evento reale la medesima dignità altrimenti riservata a una trama d’invenzione. Questo di Aleksievič non è un primato in senso stretto. Alle spalle dei titoli ora riuniti in Guerre e, a maggior ragione, di quelli destinati a confluire nel prossimo Tornare al cuore dell’uomo (nel secondo volume delle Opere Bompiani troveranno posto Tempo di seconda mano e Preghiera per Černobyl’) sta la tradizione del romanzo ottocentesco russo, con Dostoevskij che spulcia le gazzette in cerca di casi sensazionali da trasfigurare nei suoi capolavori. Di nuovo e di peculiare Aleksievič introduce una delicatezza che, nella letteratura degli ultimi decenni, trova un corrispettivo adeguato forse solo negli scritti di Primo Levi. In fondo, I sommersi e i salvati è il resoconto di un testimone, che per una felice casualità è anche un grande scrittore, determinato a non tenere per sé l’arte in cui è maestro.
info@alessandrozaccuri.it
A. Zaccuri è scrittore e direttore della comunicazione all’Università Cattolica di Milano