Un orizzonte di lacrime e sottomissione
di Valeria Melis
Paola Angeli Bernardini
Donne e dee nel Mediterraneo antico
pp. 216, € 15,
il Mulino, Bologna 2022
Polyphloisbos, “che molto risuona”, ēchēeis, “echeggiante”, porphyreos, “purpureo”, “livido”, “agitato”, sono solo alcuni degli epiteti con cui Omero definisce il mare. Sufficienti, però, a suggerire l’inquietudine che il regno di Posidone doveva suscitare nell’animo degli antichi greci. Affrontare l’ampia distesa marina e le sue grandi onde era impresa complicata per gli uomini, impensabile per le donne. Forse è per questo che gli studi sulla condizione femminile nelle società antiche, in particolare in quella greca, sempre più numerosi dagli anni settanta del Novecento a oggi, hanno trascurato di indagare la relazione tra le donne antiche e il mare, avallando l’idea che l’orizzonte marino fosse loro precluso.
Tale è il “mito” che il libro Donne e dee nel Mediterraneo antico di Paola Angela Bernardini, vuole sfatare. Nonostante l’esiguità delle fonti, un’attenta esegesi, capace di coniugare le testimonianze letterarie con i dati della storia, dell’arte e della geografia antropologica e culturale, mostra come l’idea preconcetta dell’estraneità femminile rispetto alla sfera della navigazione e del mare debba essere almeno parzialmente ridimensionata. I primi tre capitoli del libro sono soprattutto dedicati ai mostri marini, come le Sirene, Scilla e Cariddi, alle divinità che popolano gli abissi, come le Nereidi, e a quelle che, come Iside e Astarte, si spostano lungo le rotte del Mediterraneo, favorendo la diffusione di culti o fenomeni di sincretismo religioso; sono quindi narrate le storie della maga Circe e della ninfa Calipso, signore delle isole di Eea e di Ogigia. Oggetto di trattazione dei capitoli successivi sono le peripezie sul mare delle donne del mito. Storie spesso infelici, che, non a caso, furono fonte di ispirazione per i poeti tragici. Eschilo, ad esempio, nelle Supplici, portava sulla scena la fuga delle cinquanta figlie di Danao, re della Libia, costrette a navigare dall’Egitto fino ad Argo per sfuggire alla guerra e alle nozze forzate con i cugini. La storia delle Danaidi è strettamente legata a un’altra vicenda che parla di donne e della loro relazione con il mare: il mito di Io. Figlia di Inaco, divino fiume dell’Argolide, Io, sedotta da Zeus nella città di Argo, attira la gelosia di Era, che si vendica trasformandola in una candida giovenca tormentata da un tafano. Per liberarsi del fastidioso insetto, Io percorre il Mediterraneo in lungo e in largo, finché non giunge in Egitto, dove, grazie all’intervento salvifico di Zeus, genera Epafo. Da Epafo ha poi origine la stirpe dei due fratelli Egitto e Danao, padre delle Danaidi.
Il mito di Io è interessante anche perché rientra in uno schema mitico il quale prevede che dall’unione di una donna con un dio (o con un eroe) abbia origine una discendenza gloriosa. Inaspettatamente sedotte mentre colgono fiori o giocano su un prato fiorito, inseguite, rapite e poi violate, eroine come Io, Europa, Etra, Auge e Ifimedea ricevono come compenso della verginità perduta l’onore di essere progenitrici di discendenti illustri.
Le peripezie di Io e di altre figure femminili analoghe, mortali e divine, coinvolgono e collegano regioni limitrofe del Mediterraneo, culla di molte civiltà diverse, non sempre pacifiche. Spesso, infatti, esse entravano in conflitto tra loro, specialmente quando si trattava di imporre il loro dominio sul mare. Una delle parole chiave del libro è “talassocrazia”. Il desiderio di controllare le rotte commerciali, da solo o insieme ad altri fattori (come i cataclismi naturali o le invasioni nemiche), spingeva interi popoli ad attraversare il mare, attivando spostamenti e forme migratorie complesse, collettive o individuali, in cui le donne, come avveniva nelle colonizzazioni, svolgevano un ruolo importante.
Le guerre, in generale, erano causa di indesiderati viaggi per mare. Le storie delle donne troiane che, come Ecuba e Andromaca, dopo l’incendio e la distruzione di Ilio diventano preda dei nemici, riflettono il triste destino di tante donne che venivano strappate alla loro terra per seguire i vincitori come concubine o schiave. Cortigiane, nutrici, serve e schiave non erano le sole a viaggiare per mare. Gli ultimi capitoli del libro delineano una realtà storica complessa e variegata, nella quale regine e ammiraglie (come Artemisia I, sovrana di Alicarnasso, che partecipò alla battaglia navale di Salamina), armatrici e sacerdotesse affrontavano con coraggio il pericolo dei flutti. Prostitute e commercianti frequentavano i porti e si imbarcavano per andare in cerca di fortuna. Soprattutto in epoca ellenistica, prendevano la via del mare anche donne di spettacolo, come l’arpista, proveniente da Cuma eolica, che, intorno al 130 a.C., partecipò ai Pythia delfici, ottenendo un compenso di mille dracme.
Fittizie o reali, le peripezie delle donne nel mare solo raramente si svolgono in una cornice gioiosa o hanno un lieto fine. La relazione tra l’elemento femminile e l’ambiente marino, minoritaria, ma non assente nell’antichità, riflette soprattutto la condizione di debolezza e di subordinazione delle donne entro la compagine sociale in cui vivono. E non solo in quella antica: il richiamo alla “strage delle migranti nel Mediterraneo” mostra come, a distanza di secoli, il mare sia ancora come lo descriveva Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò, “tutto intriso di sperma e di lacrime”.
valeria.melis@unica.it
V. Melis insegna lingua e letteratura greca alle Università di Cagliari e Ca’ Foscari Venezia