recensione di Matteo Fontanone
Michele Masneri
Steve Jobs non abita più qui
pp. 253, € 19,
Adelphi, Milano, 2020
Se per molti scrittori le etichette date dagli altri rischiano di essere una maledizione, il ruolo un po’ ingombrante di nipote di Arbasino non è riuscito a inibire la brillantezza delle pagine di Michele Masneri, che tra tutti i discepoli dello scrittore di Voghera è stato l’unico in grado di ispirarsi a lui senza mai diventarne un epigono. Nonostante si tenga a distanza dalle sperimentazioni linguistiche e dai sofisticati marchingegni formali di Arbasino, è pur vero che a Masneri, semplificando, interessano le sue stesse cose: il racconto disincantato del potere e della ricchezza, la fama e le sue mille manifestazioni, il jet-set e chi vi fa parte – alla luce del sole o ancora meglio nel dietro le quinte. Masneri è quel tipo di intellettuale mondano che all’inizio di una serata vinicola scopre di essere seduto al tavolo di Massimo D’Alema e ne traccia un affresco divertentissimo, è quello che rivela al pubblico i complessi riti che regolano i funerali della Roma bene, che può parlare del ritorno in ufficio dopo lo smart working o delle vacanze dei politici a Sabaudia, ma sempre lontano dalle seduzioni di gossip e cronaca, con un tono di voce così elegante che alla lunga finisce per conquistare tutti, anche i personaggi – quelli ancora vivi, s’intende – di cui parla nei suoi pezzi.
In una recente conversazione su «Rivista Studio» a proposito di Steve Jobs non abita più qui, la sua raccolta di reportage californiani da poco pubblicata per Adelphi, a Masneri è stato chiesto se al centro del suo scrivere ci sia una fantomatica ricerca della coolness, quell’aura invisibile e un po’ magica che rende particolarmente attraenti alcune persone, i loro progetti lavorativi, le bolle in cui sono immerse. Ora, senza troppo indagare su cosa si intenda per coolness in ambito letterario né sulla sensatezza di una simile categoria, la risposta dell’autore è una buona dichiarazione d’intenti: ciò che gli preme è il racconto della borghesia contemporanea, con tutto il suo bagaglio di evoluzioni, mimetismi, aggiornamenti e tendenze stagionali. A Masneri, insomma, interessa individuare il glamour negli altri, quindi scriverne, renderli per questo ancora più glamour e così via. Ma tra i borghesi di Milano o Roma e quelli della West Coast americana il paragone non tiene, a tal punto che leggendo queste prose ci si chiede se sia possibile parlare ancora di borghesia o se la classe dirigente startuppara dei dintorni di San Francisco non sia già qualcos’altro, una sorta di lobby fluida, ultra-liberal e politicamente corretta che ha ben poco a che fare con tutta l’accozzaglia di status symbol dell’élite nostrana. Siamo lontani anni luce dalle estati in barca a Santa Margherita, dalle epopee delle grandi famiglie industriali e da tutta l’araldica del secondo Novecento italiano: nel suo Erasmus tardivo in California Masneri racconta una società spaccata in due, o homeless o milionari, ossessionata da Trump e dal cibo bio, gay friendly e radical chic, vittima di una speculazione immobiliare soffocante e quindi presto ridotta al paradosso di stipendi a cinque zeri costretti a vivere in camper.
Nel passaggio dalla Capitale alle coste del Pacifico, l’autore ha mantenuto intatta quella sua curiosità verso gli altri – che cosa fanno, in che case abitano, chi vogliono diventare, di che persone si circondano, come spendono i loro soldi – il cui esercizio lo ha reso una delle firme più gustose del giornalismo a cavallo tra il personal essay, il costume e la critica culturale. La San Francisco osservata da Masneri è la meta di chiunque abbia in canna una buona idea con cui macinare il «primo milione» o voglia vivere la propria sessualità senza steccati, nel luogo più inclusivo del mondo. Aspirazioni sociali, affitti alle stelle e liberazione del desiderio nella gigantesca area metropolitana in cui prendono vita le rivoluzioni culturali: nei Sessanta la Summer of Love, nemmeno dieci anni dopo il leggendario garage di Cupertino dove nacque la Apple. Ma mentre il movimento hippie non ha retto alla prova del tempo e ora è ridotto a estetica da museo, nella Valle l’ideologia del progresso non conosce sosta. I ragazzi abbandonano a metà percorso le università più prestigiose, vengono assunti da qualche colosso digitale e lavorano in campus avveniristici talmente confortevoli che in potenza si potrebbe quasi fare a meno di uscirne: un po’ Il cerchio di Dave Eggers, un po’ L’ultimo degli uomini di Margaret Atwood. Le grandi corporation partecipano al gay pride di San Francisco con carri aziendali, la vita sessuale viene sponsorizzata come fosse un brand, le app sono diventate un’estensione del corpo dell’individuo: immaginate qualsiasi funzione, da quella di cui non sapevate di avere un bisogno terribile fino alla più sinceramente inutile, e state certi che qualcuno avrà avuto l’idea, avrà ottenuto dei finanziamenti e la starà già sviluppando. All’interno di un ecosistema così smart, in esplorazione delle magnifiche sorti progressive della fettina di mondo dove è precipitato, Masneri incontra chiunque, cuoche milionarie, startupper di successo, founder di Airbnb alla ricerca delle proprie radici in Sicilia, esotici ministri di micronazioni polinesiane e persino scrittori celebrati come Jonathan Franzen e Bret Easton Ellis. A proposito, è sintomatico come loro due, immersi in un panorama del genere, assomiglino a dei dinosauri giunti chissà come nel qui e ora da un’epoca lontanissima; lo stesso vale per il racconto dei miti fondativi di atenei come Stanford e Berkeley, per la villa di Palo Alto progettata da Ettore Sottsass, per gli aneddoti del vedovo di Christopher Isherwood e i suoi dipinti una volta d’avanguardia. Curiosità e vezzi da secondo Novecento di cui Masneri è innamorato e che continua a raccontare, nonostante la società intorno a sé lo tiri per la giacchetta verso altre nuove, futuribili direzioni.