Eccetera, perché la minestra si fredda…
di Corrado Bologna
Marco Cursi
Lo specchio di Leonardo
Scritture e libri del genio universale
pp. 236, € 22,
il Mulino, Bologna 2020
“Eccetera, perché la minestra si fredda”. Un appunto improvviso, ghiribizzoso. Leonardo lo traccia su un foglio di calcoli geometrici raccolto nel codice Arundel 263, oggi a Londra. Lo scrive di getto, dispiaciuto, forse anche irritato di dover interrompere il lavoro per ragioni banali, e accompagna la nota con un ghirigoro che sembra (suggerì Carlo Pedretti) una “stenografia del pensiero”, un appuntamento dato a se stesso per riprendere appena possibile il filo del ragionamento.
È forse l’estate del 1518, e Leonardo si trova in Francia, nel piccolo castello di Cloux, vicino ad Amboise, offertogli l’anno prima da re Francesco I con tutti gli onori. Leonardo non lo immagina, ma gli resta solo un anno di vita. Ha sempre fretta, il tempo non basta mai a un curioso e vorace esploratore della natura come lui, che riempie fogli e fogli di disegni e di studi con la sua famosa scrittura da destra a sinistra, che noi comuni mortali riusciamo a leggere solo riflessa in uno specchio. Ecco: sul foglio dell’Arundel la traccia grafica della sua mano cerca proprio di acciuffare il lembo della vita che fugge. La vita, la nuda vita fatta di gesti ordinati, di scarti fra i momenti del “fare” e quelli del “non fare”, dell’operosità e dell’inoperosità, lo richiama all’ordine. Ma questo ordine esistenziale, in un momento di assoluta astrazione, di pura “felicità mentale”, per Leonardo, come per ogni artista nell’istante della creazione, prende le fattezze paradossali del disordine, dell’entropia. La fantesca Maturine o il cameriere Battista de Vilanis, che gli furono accanto ad Amboise, saranno entrati nello studio chiamando il Maestro a tavola, chiedendogli di interrompere il suo lavoro, perché, appunto, “la minestra si fredda”. Leonardo non poteva sapere che tanti anni prima, la sera di mercoledì 9 giugno 1350, Francesco Petrarca (però in latino, con tono “monumentale”, e richiamando un topos antico) aveva fermato la memoria in un evento simile nel codice degli abbozzi, mentre imbastiva una canzone dei Rerum vulgarium fragmenta (“Volui incipere, sed vocor ad cenam…”). Assorto nella dimostrazione e preoccupato di perdere il filo del ragionamento, Leonardo reagisce inglobando nel testo l’irruzione della vita, quasi per annullarne la prepotenza: così, con la scrittura, “interiorizza l’esteriorità”. Il gesto veloce della mano sembra voler negare che la vita è breve, troppo breve per contenere il desiderio di tutto il “tempo a venire”: esso non arriverà mai a compiersi, ma esiste nella potenzialità dell’istante in cui lo si immagina e lo si crea: nella mente dell’artista.
La mano di Leonardo è il pantografo fulmineo, ma sempre troppo lento, della mente di un genio. Conosciamo i suoi dipinti mirabili, e abbiamo visto innumerevoli volte le strambe righe che come granchi si muovono a ritroso nelle sue carte. La mano è sempre quella. Però dell’atto di scrivere non ci si è mai occupati in maniera organica e completa. Nella sterminata bibliografia leonardesca, come Pedretti rilevò quindici anni fa, non esiste una “trattazione particolareggiata ed esauriente (…) come strumento di ricerca” della scrittura di Leonardo, che affolla le centinaia di pagine dei suoi manoscritti. Nel 1883 l’edizione di Jean Paul Richter, storico dell’arte tedesco, mise a disposizione uno strumento rimasto prezioso per quasi un secolo. Poi, fra 1905 e 1911, la Reale Commissione Vinciana avviò la pubblicazione di tutte le carte di Leonardo, edite e inedite; e proprio in quegli anni Girolamo Calvi cominciò a studiare e a classificare con confronti grafici le scritture leonardesche. Ma è solo oggi, con il bellissimo libro di Marco Cursi, che gli atti “del genio universale” di scrivere moltissimo, e di leggere una biblioteca piccola ma varia, vengono analizzati con microscopia dettagliatissima e insieme interpretati nell’orizzonte vastissimo della cultura fra Umanesimo e Rinascimento, permettendoci di risalire dal gesto della mano al lampo del pensare.
Il più grande paleografo italiano, maestro di Cursi e di tutti noi, Armando Petrucci, elaborò una categoria di altissimo valore storiografico ed ermeneutico, che definì “paradigma di compatibilità”. Non riusciremo mai a dimostrare la “verità”, ad esempio, di un rapporto fra scritture, come fra testi o fra immagini: ma potremo dare prove della “compatibilità” logica, storica, documentaria, di un’ipotesi che valuti, confrontandoli, i dati disponibili, le segnature che le “cose” hanno impresso nel tempo, approssimandoci a “toccare con mano” gli accadimenti reali. Il gesto di tracciare lettere e parole su un foglio rappresenta uno fra gli atti decisivi per lasciare impronte, spie di un’esistenza e di un pensiero. Rifare la storia della scrittura leonardesca, fissando con scienza paleografica finissima dei “punti d’ancoraggio cronologico affidabili”, significa elaborare uno schema di “compatibilità” per decifrare i tempi, i modi, le intenzioni di quel lavoro frenetico e sterminato. E questo è un atto di condivisione antropologica e addirittura etica, perché non solo apre dimensioni di lettura decisive nella vicenda di un genio, ma insegna, con umile fatica pienamente umanistica, a restituir senso alla testimonianza di chi sta dicendo “io ci sono stato, qui, ora”: rende “compatibili” le forme esteriori con la ricostruzione dei pensieri e della volontà di un essere umano. La mano che scrive fissa le idee elaborate nella mente: la rispecchia. Così andrà inteso, anche, lo “specchio” scelto come titolo da Cursi, il quale allude ovviamente altresì alla lettura degli scritti leonardeschi, composti “al contrario”, secondo una direzione che sembra alterare quel processo “da sinistra a destra” così intrinseco alla visione e alla rappresentazione del mondo in Occidente. E come ha rilevato un indimenticato linguista e antropologo, Giorgio Raimondo Cardona, “il pensiero, in quanto organizzazione di rappresentazioni, nuclei, nodi, engrammi, è già una scrittura mentale per immagini”. La scrittura acquisisce il tempo, superando i limiti del qui e dell’adesso; offre una temporalità nuova alla caducità della parola che si spegne appena pronunciata.
Marco Cursi, tenendo questi principi come bussola e sestante, va alle radici biografiche, e storicizza l’attività di scrittura di Leonardo, figlio illegittimo di un notaio, contestualizzandola all’ambiente casalingo in cui studia, e poi in un confronto di grande interesse con l’attività grafica nelle botteghe d’arte fiorentine. Estrae dalla ganga inerte dei materiali ed esamina con straordinaria precisione l’evolvere della scrittura del genio che è ancora solo un giovane artista molto promettente, la “mercantesca” diffusa a partire dall’età di Dante “tra la borghesia cittadina impegnata in attività artigianali”. E vi riconosce due livelli, “una scrittura d’uso, utilizzata prevalentemente per appunti rapidi”, e “una scrittura formale, molto più curata nella disposizione della pagina e nell’allineamento, impiegata nelle didascalie dei disegni di più alto profilo artistico, negli zibaldoni preparatori che più si avvicinano alla forma del trattato e anche in alcune sezioni dei libri di bottega”. Le carte leonardesche si comprendono meglio se si comparano ai “libri degli artisti”, strumenti di registrazione di quanto avveniva nelle botteghe dell’età favolosa della pittura umanistico-rinascimentale, “cui competeva anche la funzione di scuola”. Cursi studia le innumerevoli tracce autografe di Leonardo, affastellate spesso secondo l’impulso della ricerca in un caotico innestarsi di calcoli, dimostrazioni, disegni, abbozzi di quadri, note sulle forze naturali, soprattutto sulla violenza delle acque e dei venti, progetti fantascientifici (il volo umano, l’elicottero, la discesa sottomarina, il carro armato…). Ricordo un solo caso, stupendo, emblematico della galassia in espansione che è la mente di Leonardo e che la sua mano rappresenta dinamicamente sul foglio: l’unica volta in cui pietra rossa e pietra nera si giustappongono, nel codice Forster III, Leonardo affianca “una considerazione riguardante la fisica dei pesi sovrapposti ad un pensiero sulla caducità della bellezza, che prende forma con l’immagine di un’anziana donna accompagnata dalla seguente didascalia: ‘Cosa bella mortal passa e non dura’”. La “convivenza tra le differenti tecniche scrittorie” lascia percepire come fiorisca, in una selva selvaggia di procedimenti mentali, di pensieri e di emozioni, la tenerezza malinconica per il fulmineo svanire delle cose, evocato con un verso petrarchesco sul presentimento della morte imminente di Laura. Ma la Laura che Leonardo tratteggia nel suo disegnino con un guizzo umorale è una grottesca vecchietta sdentata, con il gozzo e gli occhi cisposi.
Attraverso un lavoro paziente e accuratissimo Cursi classifica tutti gli autografi di Leonardo, li ordina per età e tipologia di scrittura, per genere di penna e di matita utilizzata, e interpreta le intenzioni profonde, l’architettura e il progetto mentale in cui si innescano. Riesce così a spiegare non solo “la convivenza tra le differenti tecniche scrittorie”, ma i dettagli del processo della mente che guida la mano. Ed è magnifico seguirlo, mentre deduce i motivi per cui, dopo aver scritto con la sanguigna, come in un palinsesto Leonardo ripassa le lettere con l’inchiostro, in “un intento di regolarizzazione” e di “chiarezza espositiva”, e per il “desiderio di promuovere quei testi da uno stato di provvisorietà (…) a quello di compiutezza”. Questo viatico a “Leonardo scrivente”, prima che a “Leonardo scrittore”, ci permette di dischiudere la porta del laboratorio mentale di un genio, riconoscendone l’attività artigianale mentre si compie, occhieggiando i gesti che esegue davanti ai fogli bianchi, fino a entrare nello sterminato spazio del suo pensiero, spiandolo da dietro il tavolo, mentre la mano si muove.
Una delle scoperte più acute di Cursi è la ragione per cui Leonardo muove in senso inverso a quello nostro la mano sinistra: perché è un “mancino non corretto”, a differenza di Michelangelo, il quale invece venne mortificato nel suo istinto spontaneo dai maestri che riuscirono “ad ottenere la sua definitiva sottomissione all’uso della mano destra, cui Leonardo non volle mai sottostare”. Leonardo, ribelle a qualsiasi “sottomissione”, usava entrambe le mani, e quando voleva “sapeva scrivere anche da sinistra a destra”. Cursi, riprendendo l’intuizione di Luca Beltrami d’un secolo fa, attraversa come il dottor Livingstone la foresta vergine delle carte di quel genio incontrollabile, e scopre le fonti della “sua seconda scrittura”, classificando sistematicamente i 28 codici autografi, i 12 volumi dell’oceanico Codice Atlantico e la vasta collezione dei disegni di Windsor: e dimostra che “Leonardo scriveva nell’una e nell’altra direzioni con pari abilità”.
Con questa guida il lettore può immergersi negli universi del senso, fra le liane di quei ghiribizzi, nella giungla di quell’“impulsività creatrice” che sembra non finir mai. “Eccetera, perché la minestra si fredda…”.
corrado.bologna@sns.it
C. Bologna insegna letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa