Reciproche inferenze tra sorelle e fratelli coltelli
di Francesco Pirani
Jean-Claude Maire Vigueur
Attrazioni fatali
Una storia di donne e potere in una corte rinascimentale
pp. 340, € 25,
il Mulino, Bologna 2022
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, nel 1939, il romanzo d’esordio di Maria Bellonci Lucrezia Borgia fece appassionare il grande pubblico alla vita privata nelle corti del Rinascimento dell’Italia padana. Su questo filone, Bellonci avrebbe costruito la sua fortuna letteraria, fino al suo ultimo celebre romanzo, Rinascimento privato (Mondadori 1985, Premio Strega 1986). I suoi vividi quadri narrativi si basavano su una profonda conoscenza dei documenti d’archivio e valorizzavano l’immensa mole di lettere, prodotta tanto dagli uomini quanto più dalle donne delle corti rinascimentali.
Sfogliando il libro di Jean-Claude Maire Vigueur, il pensiero non può non correre a Bellonci e per più di un motivo. Anzitutto per la comune materia: “intrighi, amori, gelosie, rivalità, e soprattutto potere nelle corti del Rinascimento”, come recita la quarta di copertina. Poi, per la scelta di privilegiare fra le fonti storiche gli epistolari, soprattutto femminili, così ricchi di nuances. Tuttavia, anche se i luoghi e personaggi sono gli stessi, il lucido saggio di Maire Vigueur non potrebbe essere più distante dalla prosa letteraria di Bellonci. Non tanto per il genere della scrittura, com’è ovvio che sia, ma soprattutto per la prospettiva d’indagine. Sono infatti deflagrate nel frattempo molte rivoluzioni culturali: quella del linguistic turn, degli studi sulla storia della famiglia, sulla sessualità, sulla donna e sul genere, per non parlare dell’apporto dell’antropologia culturale. Una materia, quella delle relazioni familiari nelle corti rinascimentali, che era stata fino a una generazione fa appannaggio della letteratura, è oggi una ghiotta esca per gli storici, grazie allo straordinario ampliamento dei loro interessi e degli strumenti critici a loro disposizione. Il libro di Maire Vigueur si colloca nel fecondo incrocio fra queste istanze disciplinari e la straordinaria sensibilità di uno studioso di lungo corso.
Veniamo dunque ai contenuti. L’abbrivio è costituito da un fatto di cronaca, avvenuto nel novembre 1505: l’agguato teso, nelle campagne ferraresi, a Giulio, figlio illegittimo del defunto duca Ercole I d’Este, che comportò il suo brutale accecamento. Mandante dell’aggressione era nientedimeno che il fratellastro di questi, il famoso cardinale Ippolito d’Este, accecato – stavolta metaforicamente – dall’amore verso un’irresistibile damigella, Angela, amante di Giulio. Questo fattaccio è ricostruito nella dinamica, nelle rappresentazioni e nelle reazioni, poiché rappresenta il pivot attorno a cui l’autore costruisce il suo questionario. Al cuore dell’indagine si colloca “la storia interna e collettiva dei vari membri della famiglia degli Este tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento”. Non una storia privata, che ammicca a sbirciare nelle segrete stanze, e neppure una biografia delle personalità di eccezionale statura che vissero in quegli anni alla corte ferrarese: Alfonso, Ippolito e Beatrice d’Este, per non parlare di Lucrezia Borgia. Una storia, invece, incentrata sui precari equilibri delle relazioni intrafamiliari che investono complessivamente tutti i membri – maschi e femmine – nati, cresciuti o approdati nella corte. È questa peculiare angolatura, che privilegia dunque i rapporti filiali, matrimoniali e soprattutto adelfici, a offrire una nuova e convincente lettura dei meccanismi della corte e anche dell’agire di grandi personalità.
La scelta di puntare sull’analisi di sistema, più che sulla scansione cronologica degli eventi o sulle singole personalità dei protagonisti, conduce l’autore a scandire il saggio in capitoli tematici. Il libro è estremamente denso di fatti e di personaggi, ma non se ne smarrisce mai il filo, come potrebbe rischiare di accadere in una tale ridda, poiché tutti ancorati a una solida architettura investigativa, che muove da una domanda in apparenza semplice: quali fattori strutturali potevano aver provocato l’attentato del 1505? L’autore ricostruisce le cause remote attraverso una prima terna di capitoli. Il primo verte sull’educazione dei figli di Ercole d’Este, ispirata ai valori umanistici: una paideia che non applicava distinzione di sesso o di status fra figli legittimi e non. Gli otto infanti allevati alla corte ferrarese da Ercole e da sua moglie Eleonora d’Aragona, quattro maschi e tre femmine, furono fatti crescere all’interno di una comunità omogenea e con valori comuni. A far decantare i diversi destini furono l’ordine della nascita, come pure la celebrazione di matrimoni vantaggiosi, oltre naturalmente alle attitudini personali. L’intreccio combinatorio di questi fattori produsse per ciascuno degli otto protagonisti percorsi e carriere personali, sostanziate di riti collettivi e di abilità individuali. Si delineò così una varietà di esiti: la vocazione per la gestione del potere da parte di Alfonso e di Ippolito, l’allontanamento da Ferrara delle donne in seguito al matrimonio, la frustrante inerzia dei restanti fratelli cadetti, scarsamente abili nel mestiere delle armi, e definiti icasticamente “vitelloni” dall’autore.
Come funzionavano le affinità e gli affetti fra questi tre gruppi? I legami oscillavano fra la condizione di “amici fraterni” e quella di “fratelli coltelli”: a determinare le tensioni concorrevano vari fattori, talora affioranti nella comunicazione epistolare. Le lettere di Isabella sono a tal proposito le più ricche di sfumature e accorate, mentre quelle dei fratelli più reticenti: tuttavia, raramente travalicano i limiti di uno stile composto e misurato, lasciando spesso lo storico al di qua di un’autentica comprensione dei moti dell’animo umano. Certo, tutti i personaggi condividevano uno stesso stile di vita, quello della corte, partecipando solidariamente ai riti delle feste, delle cacce, dei giochi e dei tornei. Tuttavia, si ha la netta impressione che questa “coesione di facciata”, come la chiama l’autore, manchi del “cemento degli affetti”. Un afflato in realtà alligna nelle lettere delle donne lontane da Ferrara, ma fra i due gruppi di fratelli, quelli al potere e quelli esclusi, si cristallizzano solidarietà interne e rivalità reciproche.
Quali erano i motivi di tale rivalità, sfociata in aperta violenza? Alla questione presiede una seconda terna di capitoli, incentrati su altrettanti temi. Il primo è quello delle risorse economiche: nel testamento di Ercole I, dettato nel luglio 1504, Alfonso veniva dichiarato erede universale, mentre ai fratelli minori venivano attribuiti appannaggi, che non potevano soddisfare del tutto le loro aspirazioni. Del resto, i tre vitelloni non potevano attingere alle ricchezze accumulate nelle casse ducali, e per giunta, essendo rimasti scapoli, non potevano neppure beneficiare delle doti di una moglie ricca. Il secondo elemento di competizione era costituito proprio dalle donne. Nelle corti rinascimentali la poliginia dei principi coniugati era una pratica tacitamente accettata: è evidente che Alfonso e Ippolito, grazie alla loro posizione eminente, potessero disporre a loro piacimento di cortigiane e di concubine, molto di più di quanto potessero ambire i vitelloni. L’ultimo decisivo elemento di rivalità è rappresentato dalla gestione del potere. I cadetti non potevano sopportare di essere stati esclusi totalmente dalla gestione politica: così, nel 1506, Giulio e Ferrante ordirono segretamente una congiura tesa a spodestare Alfonso, che nulla aveva fatto per punire il gesto violento perpetrato da Ippolito l’anno prima. La congiura, assai velleitaria, fallì miseramente: non tanto per cause contingenti, bensì per motivi strutturali. Alfonso aveva infatti impiantato da subito una signoria forte, ma anche “calda” verso i suoi sudditi, appagati del suo potere paternalistico e per nulla disposti a metterlo in discussione per i due fratelli inetti. Con l’inevitabile condanna al carcere a vita degli orditori della congiura si chiude l’indagine storica: il rapporto tra i fratelli era ormai giunto a una svolta irreversibile.
Il saggio ha molti pregi, non ultimo quello di una scrittura fluida e comunicativa. Uno dei crediti maggiori consiste forse nell’aver restituito la parola alle donne non meno che agli uomini. Non soltanto perché le lettere di Beatrice d’Este costituiscono un repertorio inesauribile di temi e motivi; né tanto meno come tributo alle mode storiografiche. Quanto invece per voler dimostrare che in una complessa rete di relazioni parentali come quella attiva nelle corti dell’Italia rinascimentale, il ruolo e il peso delle donne fu pari a quello degli uomini. Così, il libro ci insegna che quella pagina di storia la si potrà veramente capire soltanto attraverso le reciproche inferenze fra donne e uomini.
francesco.pirani@unimc.it
F. Pirani insegna storia medievale all’Università di Macerata