Quando Parigi era una donna
di Elisabetta d’Erme
All’inizio degli anni venti del Novecento solo un “puro folle” poteva pensare di pubblicare e distribuire un libro tabù com’era all’epoca l’Ulisse di James Joyce. Il novello Parsifal si materializzò a Parigi, in versione femminile, nella giovane americana Sylvia Beach, che il 17 novembre del 1919 aveva aperto sulla Rive Gauche la libreria Shakespeare and Company. Sylvia Beach, per natura ottimista, era una di quelle persone che si possono classificare nella categoria degli entusiastiå o, in termini meno lusinghieri, degli amateurs, degli innocenti dilettanti.
Nata nel 1887 a Baltimora da una famiglia di radicate tradizioni presbiteriane, si innamorò presto di Parigi e della poesia, tanto da sperare di poter aprire un giorno una libreria francese a New York; poi però, per caso, durante un soggiorno parigino entrò nella Maison des Amis des Livres in Rue de l’Odéon 7 e conobbe la proprietaria: Adrienne Monnier. Fu amore a prima vista. Sylvia Beach cambiò idea e aprì poco distante una libreria americana, prima in rue Dupuytren e poi in rue de l’Odéon. Per la sua impresa non avrebbe potuto scegliere momento migliore. L’intellighenzia americana si stava trasferendo in massa a Parigi. L’elenco dei nomi famosi di quegli espatriati statunitensi è lunghissimo, ma basterà qui ricordare T. S. Eliot, Ezra Pound, Ernest Hemingway, Robert McAlmon, Gertrude Stein e Alice Toklas, Janet Flanner, Djuna Barnes…
Le due librerie di Adrienne Monnier e di Sylvia Beach divennero presto il centro catalizzatore della vita culturale franco-americana o britannica. Stava nascendo il modernismo, nascevano piccole riviste che andavano diffuse, si sperimentava in tutti i campi, tutto veniva messo in discussione: tradizioni musicali, stili letterari, generi pittorici, abitudini sessuali. La Grande guerra aveva mietuto le giovani vite di tanti artisti e poeti, lasciando il campo libero a molte donne, impazienti di condurre una vita creativa e indipendente. Ben si adatta quindi a cogliere l’atmosfera di quel periodo il titolo del bellissimo documentario di Greta Schiller Paris was a Woman (2000) tratto dall’omonimo saggio di Andrea Weiss (Pandora, Londra 1995) che raccoglie i ritratti (e splendide foto) delle due donne che animavano “Odéon”, il paradiso dei libri in Rue de l’Odéon, e di una marea di scrittrici, poetesse, artiste, giornaliste come la strana coppia Stein/Toklas che presiedeva il salotto di rue des Fleurs, l’“amazzone” Natalie Barney e la pittrice Romaine Brooks, ma anche Colette, Dolly Wilde, Radclyffe Hall e Una Troubridge, Djuna Barnes e Thelma Wood, Janet Flanner e Solita Sonano, Margaret Anderson e Jane Heap, Nancy Cunard, Bryher e Hilda Doolittle o ancora Mina Loy e le fotografe Gisèle Freund e Berenice Abbott.
Sì, negli anni venti Parigi era una donna dai mille volti e in questo suo libro di memorie, scritto negli anni cinquanta, pubblicato in Italia nel 2004 da Sylvestre Bonnard e ora riproposto da Neri Pozza nella stessa traduzione (Sylvia Beach, Shakespeare and Company, ed. orig. 1956, trad. dall’inglese di Elena Spagnol Vaccari, prefazione di Livia Manera, pp. 282, € 14,50, Neri Pozza, Vicenza 2018), Beach elenca tutti quei volti passati per la libreria o conosciuti in occasione di qualche festa o qualche cena. Il suo non è solo un tentativo di ricostruire l’irripetibile fascino di quel mondo che la seconda guerra mondiale avrebbe presto cancellato, ma anche e soprattutto di testimoniare i principali momenti della sua personale, titanica impresa: dare alle stampe il libro che nessuno al mondo voleva pubblicare e che si sarebbe rivelato essere una pietra miliare della storia della letteratura. Per una dilettante come Sylvia Beach l’approccio a un tale progetto fu imprudente e fiducioso, non aveva infatti nessuna esperienza come editore (ad esempio non sottoscrisse, se non ormai troppo tardi, un contratto con l’autore dell’Ulisse) e anche la sua stessa libreria era gestita più come un’avventura che come una impresa commerciale. La storia gloriosa della libraia editrice che in una fredda mattina del 2 febbraio 1922 attende le copie staffetta dell’Ulisse in arrivo col primo treno da Digione giusto in tempo per farne omaggio all’autore nel giorno del suo quarantesimo compleanno appartiene ormai ai miti fondanti del XX secolo. Non stupisce però che l’“autentica venerazione” che Sylvia Beach nutriva per il genio di James Joyce alla fine non sia stata ripagata con ugual moneta e che la loro storia non abbia avuto un lieto fine. È infatti noto che Joyce, per quanto grande, immenso scrittore, dal punto di vista umano fosse una persona inqualificabile. Così, dopo aver sfruttato per dieci anni la povera libraia come segretaria, postina, editrice, distributrice (clandestina), traduttrice, agente pubblicitaria, consulente legale, bancomat vivente per sé e famiglia, confidente, promotrice anche delle sperimentazioni di Finnegans Wake, dopo averla ridotta infine sull’orlo della bancarotta, un bel giorno del 1931, dalla mattina alla sera, Joyce la scaricò per cedere i diritti dell’Ulisse alla Random House. La narrazione di questi fatti da parte dell’interessata è discreta, priva di enfasi o dei dettagli più umilianti, che si possono invece trovare nella bellissima e ricca biografia La libraia di Joyce: Sylvia Beach e la generazione perduta di Noël Riley Fitch (il Saggiatore 2004) , che permette di scoprire anche lati della personalità di Beach che nelle sue memorie restano invece in ombra. In particolare quelli relativi alla sua vita privata, al rapporto con Adrienne, agli anni difficili in cui quest’ultima la lasciò per vivere con Gisèle Freund, fino alla lunga malattia dell’amica che si concluse col suicidio nel 1955.
Oggi la scrittura autobiografica di Sylvia Beach (1887-1962), nel suo intento di essere gentile, amabile e cortese con tutti, ci appare autocensoria e a tratti superficiale; per questo sarebbe forse stato più interessante riproporre il volume di Riley Fitch, alla quale non sono sfuggiti brani che Beach decise di eliminare dalla sua autobiografia, come quello in cui parlando della sua vita amorosa elencava Adrienne Monnier, James Joyce e la libreria Shakespeare and Company come i suoi tre grandi amori e Robert McAlmon come quello mancato. Sylvia Beach era il prodotto di un’educazione puritana e veniva da una famiglia che contava tredici generazioni di pastori presbiteriani. Adrienne la chiamava “Fleur de Presbytère”. Degli uomini aveva una paura fisica. Eppure questa donna minuta, sportiva e naturalmente elegante, apparentemente fragile e invece dotata di una volontà e determinazione inflessibili, realizzò quella che sembrava a tutti un’impresa impossibile, e oggi dobbiamo a lei se l’Ulisse esiste e non è andato in fumo in qualche stufa della Rive gauche. Esiste e seguita a essere pane per i denti affamati dei joyceani di ogni parte del mondo, dove viene tradotto nelle lingue più lontane. Incredibile a dirsi oggi è ancora all’indice in molti paesi arabi, ma tanti sono gli studenti e i lettori che proprio in quei paesi seguitano a vedere in quel libro un testo liberatorio e diremmo quasi salvifico.
L’Ulisse vive a ogni nuova lettura, fosse anche la centesima, e si rigenera in sempre nuove metamorfosi, come la davvero splendida trascrizione teatrale che ne fece il drammaturgo Giorgio Belledi (1933-2009) e che ora è stata pubblicata per la prima volta dalla casa editrice Diabasis col titolo I sogni di Bloom (pp. 182, € 15, Parma 2018). Questa azione drammatica in un prologo e tre atti da Ulisse di James Joyce scritta, tra il 1987 e il 1989 e mai messa in scena, stupisce per la perfetta aderenza e comprensione del testo che viene genialmente sintetizzato per il palcoscenico, compreso un essenziale mini-monologo finale di Molly Bloom. Un lavoro prezioso e stranamente sconosciuto che andrebbe finalmente realizzato da qualche coraggiosa compagnia teatrale. Un’ulteriore metamorfosi del sacro testo originale può essere l’ambizioso romanzo di Erik Holmes Schneider Mare Grega (Independent Publishing, 2018), disponibile in lingua inglese su Amazon, in cui lo scrittore americano naturalizzato triestino ricrea in perfetto stile joyciano la notte del 12 gennaio 1910, quando Filippo Tommaso Marinetti arrivò a Trieste per tenere una Serata Futurista a cui parteciparono tra gli spettatori anche Italo Svevo e James Joyce. L’impianto narrativo ricalca alcuni episodi dell’Ulisse, in particolare Eumeo, Circe e Penelope. Nel romanzo il flusso di coscienza è naturalmente quello di Italo Svevo, che si apre a un’ironica e sofferta narrazione di sé e che progressivamente sembra coincidere con la figura di Leopold Bloom, di cui è evidentemente una delle fonti ispiratrici. L’incontro notturno tra Svevo e Joyce, suo maestro di inglese, avviene in un barocchissimo bordello dove si ritrovano i partecipanti alla Serata Futurista. Il monologo finale è affidato alla voce di Stanislaus Joyce, che deve andare a recuperare nel cuore della notte il fratello ubriaco per riportarlo a casa. Mare Grega (modo di dire triestino per indicare una prostituta) è per certi versi un’opera rivelatrice, che dal legato joyciano acquisisce una lingua altamente creativa, ironica e allusiva, e propone un linguaggio polisemico, multilingue, denso di iperbole e giochi di parole. Frutto di anni di ricerche, il risultato è un tour de force esilarante che getta nuova luce non solo sull’Ulisse a cui si ispira, ma anche sulla figura di Italo Svevo e i suoi rapporti con la sua famiglia e con lo stesso Joyce.
Sylvia Beach amò l’Ulisse, alla sua pubblicazione dedicò tutte le sue forze, la sua creatività, i suoi pochi mezzi e la sua ricca inventiva, e fece di questo libro il capolavoro della sua vita, tanto che il suo nome e il brand della “Shakespeare and Company” sono per sempre legati a quell’unico, grande libro. A quella donna paziente e agile, tenace e naive, va ancora oggi la nostra eterna gratitudine.
dermowitz@libero.it
E. d’Erme è studiosa di letteratura irlandese