Pellegrino nell’Italia invisibile
recensione di Enzo Rega
dal numero di dicembre 2014
Guido Ceronetti
UN VIAGGIO IN ITALIA
pp. XV-365, € 22
Einaudi, Torino 2014
Sarebbe potuto partire dal Languedoc, dall’origine della nostra lingua, dice l’autore. E la lettura di Dante, insieme a quella di Manzoni (e altri), accompagna il pellegrino, il “cane randagio, che abbaia”, che redige questo journal, un diario che affastella descrizioni di luoghi (dalle grandi città ai piccoli borghi), riflessioni, aneddoti, dialoghi, squarci di filosofie orientali, suggestioni bibliche e reminiscenze classiche, osservazioni su opere d’arte e il “menù” di frugalissime cene vegetariane. Il tutto, datato maggio 1981 – aprile 1983, è il resoconto del viaggio compiuto su richiesta di Giulio Einaudi che lo pubblica nel 1983: ora riedito con una nuova prefazione, con i Supplementi del 2004 e con Il primo taccuino del 1980.
In questo appunto iniziale, finora inedito, leggiamo una frase dai Cahiers di Montesquieu che avrebbe potuto fare da exergo: “Ci sono nazioni dove, per gli uomini, pareva la Natura avesse fatto tutto: eppure essi rifiutano. Posti al di sopra delle altre nazioni, preferiscono stare al di sotto”. Il dramma dell’Italia è quello di avere distrutto la bellezza insieme all’idea di stato unitario, uno stato che per Ceronetti non sarebbe dovuto nascere. Il viaggio di Ceronetti è un viaggio nell’Italia sparente, o addirittura già sparita: è un inoltrarsi nell’Italia invisibile, quella che riappare a fatica tra gli scempi, dall’Italsider di Genova e Napoli al petrolchimico di Augusta.
Il viaggio spesso riapproda sulle sponde del Po, mobile sineddoche dell’intera penisola: “Il Po di Tolle è generoso, immenso, misterioso, fantastico. Dall’acqua si alzano voci antiche, lontane e pie. Alle spalle ho il terzo scomparto di un trittico di Bosch: la smisurata Centrale Enel di Ca’ Dolfin. Sono due silenzi, due misteri paralleli. Il fiume ha le sue voci, la Centrale il suo sibilo triste, di materia condannata. La bellezza del fiume e il brutto massacrante della Centrale l’occhio se vuole li separa: se mi volto su un lato è la luce del fiume, sull’altro è un mistero d’iniquità; una sapienza e un delitto; l’inoltrarsi di un saggio taoista nel proprio vivere e meditare la Via, e l’affannata trepidazione di un idolo crudele per la propria fragilità, protetta da mura e da guardie armate”. Dopo poco, il Po finisce in mare, sparendo “in una manica d’illusionista”. E qui vengono in soccorso i versi di Dante: “su la marina dove ’l Po discende / per aver pace”. Versi assaporati nel loro “sgranarsi musicale” che accompagna il fiume nel mare stesso dell’essere: ma, per il Po, “il suo bisogno di pace è senza termine”.
L’alternarsi di bello e brutto, che caratterizza il paesaggio e la cultura di questa Italia, tocca le stesse pagine che qui leggiamo. Le parole “alate” del maestro s’intruppano in tirate che qualcuno ha anche considerato “razziste” (pensiamo a quelle che a suo tempo il milanese Guido Almansi ha definito leggende ceronettiane) quando si spingono a descrivere il Sud Italia. Qui la “musa satirica” s’incattivisce ancor più: lo scempio postatomico di Nicastro, in Sicilia, fa “rimpiangere” (sic!) Hiroshima; i napoletani sono tutti deformi (brutti sporchi e cattivi, come in genere i meridionali), e il problema di Napoli (una Napoli che si moltiplica come un bubbone in tutta Italia) non è tanto la camorra, o il terremoto, ma il traffico. Sembra di sentire Paolo Bonacelli, a proposito di Palermo, nel Johnny Stecchino di Benigni; una Palermo che per Ceronetti è priva di sorriso: “Grovigli d’auto, crimini in serie, noia”.
Non che certe cose non siano vere, tutt’altro (Croce diceva pure che il declino del Meridione non era solo opera del malgoverno spagnolo), e Ceronetti non parla meglio del suo Piemonte. Ma se, in una certa parte d’Italia, le malefatte sono da attribuire agli uomini in quanto tali, quelle del Sud sembrano geneticamente dovute a un’antropologica tara mediterranea o orientale (un’Asia che per Ceronetti comincia già al di là di Trieste, anzi, al di qua, assoggettandosi pure l’Italia). E se Giorgio Manganelli, nel suo Cina e altri Orienti, mostra curiosità e simpatia per l’altrove, pur inquadrato dai suoi riconoscibilissimi occhi, Ceronetti rimane raccolto in sé, scrivendo, programmaticamente: “Chiudersi in Dante, viaggiare in Italia con le tendine del treno abbassate”. Eppure, c’è quello sguardo che si sa fermare sugli sventurati del Cottolengo, e su chi li assiste, e quella amabilità nello scambiare battute con i ragazzini siciliani. C’è l’incanto di fronte a Ortigia, a Siracusa (“Finalmente l’incubo della nuova Siracusa svanisce ed è il fiore bianco e delicato di Ortigia alta, la piazza del Duomo come un mirabile ricamo… lasciatemi distendere su queste magiche pietre e una mano faccia dondolare la piazza cullandomi, sono stanco”). E a Segesta, nei pressi del grande tempio, annota: “Come già a Vizzini e a Piazza Armerina in primavera, ritrovo le campagne siciliane velate dalla pioggia, un miracolo di bellezza malinconica e pura”. L’invisibile si svela (aletheia) nelle parole del maestro.
enzo.rega@libero.it
E Rega è insegnante e saggista