La sublime conquista dell’inutile
recensione di Andrea Casalegno
dal numero di gennaio 2016
Franco Brevini
ALFABETO VERTICALE
La montagna e l’alpinismo in dieci parole
pp. 290, € 16
Il Mulino, Bologna 2015
“Le ascensioni assomigliano agli spettacoli teatrali. Una volta concluse, non resta nulla”.
Eppure qualcosa resta. Restano i racconti. Anzi, si può dire che la montagna sia “il frutto dei racconti degli uomini che l’hanno percorsa”. Franco Brevini (1951), professore di letteratura italiana nell’Università di Bergamo, ha percorso le montagne del mondo in lungo e in largo, a piedi e con gli sci, scalando su roccia e su ghiaccio d’estate e d’inverno, e le ha raccontate. Molti alpinisti sono stati intellettuali di alto profilo e professori universitari, e una parte di essi ha saputo trasformare la propria esperienza in narrazione. Due nomi per tutti: Leslie Stephen, il padre di Virginia Woolf, e Massimo Mila. Franco Brevini fa parte di questa eletta schiera.
In Alfabeto verticale il filo della narrazione è affidato a dieci parole, titoli di altrettanti capitoli: Altezza, Arrampicata, Bufera, Dolomiti, Ghiaccio, Gran Paradiso, Immensità, Rischio, Scialpinismo, Tunu. Non è un decalogo, né un canone: ognuna è il punto di partenza o di condensazione, frutto di una scelta personale, per una divagazione storica, teorica, paesistica e diaristica. Ogni argomento fonde diversi generi letterari: il racconto di scalata, la descrizione d’ambiente, la storia dell’alpinismo e la riflessione sulla sua natura, i ritratti e le imprese dei protagonisti. Brevini non è un fuoriclasse, è un appassionato conoscitore della montagna che sa raccontare. Per scrivere un libro avvincente non basta compiere una grande impresa. Due eroi eponimi dell’alpinismo italiano come Walter Bonatti e Reinhold Messner sono anche notevoli scrittori, ma questo non vale per tutti. Per fare un esempio, La montagna dentro di Hervé Barmasse (Laterza 2015), l’autobiografia del fuoriclasse valdostano, signore del Cervino, ci parla di imprese eccezionali; ma l’autore è interessato più a comunicare dall’interno la propria esperienza che a farcela rivivere con una paziente descrizione che porti anche noi dentro il racconto. Brevini non ha compiuto imprese eccezionali, ma ci fa partecipare alla sua caduta in un crepaccio, fortunatamente conclusa senza danni, benché fosse “caduto nel vuoto per cinque piani di casa”, come se fossimo là con lui in quella voragine a osservare, nelle ore dell’operazione di salvataggio, “quel rovinoso disordine di blocchi verdastri, ponti crollati, minuscoli ripiani nevosi, budelli verde cupo”.
Riflessione sull’alpinismo
La riflessione sull’alpinismo e le sue tappe fondamentali è parte integrante di ogni capitolo. Uno degli esempi migliori è la discussione sul rischio, che Brevini, come Messner, considera un elemento inseparabile dall’avventura in montagna. Affrontando con Eugenio Pesci, forte arrampicatore e studioso di estetica, un’impegnativa scalata su roccia, Brevini s’interroga sul problema etico che da sempre tormenta gli alpinisti responsabili: è lecito rischiare la vita per “conquistare l’inutile”, secondo l’immortale definizione di Lionel Terray? Dopo la tragedia che, durante la discesa, segnò nel luglio 1865 la conquista del Cervino, le autorità britanniche presero addirittura in considerazione l’eventualità di vietare le imprese alpinistiche. I due amici spiegano il fascino apparentemente perverso del pericolo con l’affermarsi, a fine Settecento, dell’estetica del sublime: negli stessi anni, cioè, in cui nasce l’alpinismo europeo. “Queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria” scrive Kant nella Critica del Giudizio. E Brevini conferma: è diventato alpinista per sottrarsi alla piattezza della propria esistenza di cittadino.
Una disciplina ad alto rischio
Tra le pagine compaiono episodi assai noti, come la tragedia del 1961 sul Pilone centrale del Fréney (Monte Bianco), in cui Bonatti riuscì a salvare solo se stesso e altri due dei sette membri della cordata italo-francese (il trailer del film Grimpeurs); ma anche personaggi quasi sconosciuti, come Pierre-Joseph Frassy, intrepido valdostano che nel 1869 superò la parete est del Gran Paradiso, Julius von Payer, ufficiale asburgico che scoperse l’ultimo arcipelago polare, la Terra di Francesco Giuseppe, Robert Peroni, esploratore italiano che da vent’anni vive sulla costa orientale della Groenlandia, ai confini del Tunu (nome inuit della parte più selvaggia della costa artica), e che per aiutare gli inuit ha creato la Casa Rossa, un polo turistico e di ricerca che “è diventato per gli inuit la più importante realtà economica della Groenlandia orientale”.
Ma per chi sfida il rischio la salvezza sta sovente nei dettagli e dunque, accanto ai problemi etici, non sfigurano le due pagine dedicate alle suole da arrampicata, dai vecchi scarponi chiodati al Vibram (inventato da Vitale Bramani nel 1935), dalle babbucce di panno o di corda usate sulle Dolomiti negli anni trenta alle attuali scarpette in gomma liscia, che secondo Alessandro Gogna tolgono un grado di difficoltà. Provare per credere.
casalegno.salvatorelli@gmail.com
A Casalegno è giornalista