Povero prof che è diventato sordo
di Giovanna Mochi
dal numero di aprile 2015
“Il titolo di un romanzo è parte del testo, la prima parte anzi in cui ci imbattiamo, e ha pertanto una forte capacità di attrarre e condizionare l’attenzione del lettore (…). Per il romanziere scegliere un titolo è una parte importante del processo creativo, che gli permette di mettere a fuoco con più precisione quello che dovrebbe essere l’oggetto della sua narrazione”. Così scriveva molti anni fa David Lodge (The Art of Fiction, 1992), che ai titoli dei suoi romanzi ha sempre dedicato una cura particolare, riuscendo a infondervi il tratto specifico e inconfondibile della sua scrittura (l’ironia) e a farne icastiche, fulminee figure del mondo lì rappresentato. Chissà che cosa avrà pensato (me lo sono sempre chiesta) nel vedere le traduzioni italiane di alcuni suoi indimenticabili titoli: Small World per esempio, che disegna in due parole le “piccinerie”, appunto, del mondo accademico, e che diventa, con Il professore va al congresso,un casereccio ammiccamento, anche un tantino volgare, alle eccitanti ripercussioni dei grandi incontri internazionali di letteratura degli anni settanta. Effetto ribadito da Ottimo lavoro, professore!, che traduce Nice Work, un altro campus novel incentrato, questa volta, sui rapporti tra il mondo accademico e quello del lavoro e dell’industria (l’uno in cerca di fondi e l’altro di un accreditamento culturale) e sulle stuzzicanti implicazioni pseudoerotiche inevitabilmente legate a questi incontri.
Traduzioni infedeli per vendere di più?
La traduzione dei titoli, dunque, è l’oggetto di queste brevi riflessioni, che mi sono ritornate in mente in occasione di alcune recenti pubblicazioni, sulle quali vorrei porre l’attenzione. Ma con una premessa a cui tengo molto: tradurre un titolo può essere molto difficile, e talvolta è impossibile. Valga per tutti il caso di The Catcher in the Rye, che ha felicemente trovato, nel pur semplificato e impoverito Il giovane Holden, la sua appartenenza alla nostra cultura e alla nostra memoria. Non è di queste trasformazioni, e inevitabili rinunce, che intendo parlare. Anche i titoli di Lodge sopra citati sono, se non “intraducibili”, certamente problematici, e davvero io, come traduttrice, non so che cosa avrei potuto farne; ma di sicuro preferirei il rischio di una neutra banalità a quelle complici strizzatine d’occhio sul mondo dei “professori”, che forse intenderebbero trasferire nella nostra lingua e cultura il senso della sottile satira dell’originale. O forse no, l’idea non è neanche questa ma, più semplicemente, quella di vendere meglio, vendere di più. E arrivo a un altro punto che ci tengo a chiarire: non credo, e in alcuni casi lo so per certo, che queste scelte siano dei traduttori, sempre più bravi, più competenti e più sensibili, bensì delle case editrici, che temono la scarsa presa di titoli non immediatamente “leggibili”, o comunque poco appetibili sul mercato. Succede anche agli autori naturalmente, e più spesso di quanto si pensi: è noto il caso di Il buon soldato di Ford Madox Ford, che doveva intitolarsi La storia più triste (con un richiamo all’indimenticabile incipit: “Questa è la storia più triste che abbia mai sentito”), ma uscì nel pieno della Grande guerra e gli editori vollero un titolo meno deprimente e più patriottico. Ma diverso è il caso dell’autore che accetta, magari malvolentieri, di negoziare il cambiamento di un titolo, da quello della traduzione, che avrebbe a mio avviso il compito di mantenere, nei limiti del possibile, il senso e il registro del titolo originale.
Ed ecco i casi recenti che mi hanno fatto ritornare su queste riflessioni. Il primo è il bellissimo romanzo di Ian McEwan, The Children Act. “L’Indice” (2015, n. 1) ne ha già parlato, sottolineandone molto bene la marca stilistica (e non solo), quella di uno specialismo finanche esasperato, che qui va a investire il mondo giudiziario anglosassone, “il cui scenario viene ricostruito con chirurgica precisione e dotato del suo appropriato linguaggio” (dalla recensione di Alberto Mittone); una sfida non da poco per il traduttore, che Susanna Basso vince da par suo, con la consueta competenza e sensibilità. Ma perché allora non lasciare anche nel titolo quel linguaggio tecnico-specialistico con cui l’autore ha scelto di presentare e dare un nome al suo romanzo? Di cui peraltro troviamo subito, in epigrafe, l’ottima traduzione italiana come “Codice dei minori”? Sarebbe stato davvero un titolo meno appetibile sul mercato di La ballata di Adam Henry, non solo fuorviante e un po’ stucchevole, ma soprattutto così poco in sintonia con lo spirito informatore di quello originale? Io non lo credo (è il marchio McEwan che si compra, e ci piace riconoscerlo da subito) ma non lo so; può darsi, ma forse valeva la pena rischiare.
Non avrebbe corso invece alcun rischio, secondo me, la traduzione piana e trasparente di Dear Life (Random House, 2013), titolo originale dell’ultima raccolta di racconti di Alice Munro, con “Cara vita”: una lettera alla vita appunto, forse un congedo, certo una storia che di quella lunga vita racconta “le prime e le ultime cose, e le più private”, come lei stessa dice in una pagina intitolata Finale che precede l’ultima sezione, dichiaratamente autobiografica. Un titolo semplice e dolcissimo, aperto nella sua indeterminatezza a qualsiasi percorso di lettura. La traduzione italiana, Uscirne vivi (Einaudi, 2014), ne attiva uno, più aggressivo nei confronti della vita, per cui la narrazione sarebbe un modo di salvarsi: “Scrivere la vita per uscirne vivi. Reggersi forte al filo del discorso per non lasciarlo andare”, come si legge nella quarta di copertina. Un suggestivo passo in là verso l’interpretazione, che forse però non spetterebbe al titolo di fare.
Strategie diverse, dunque, mi sembrano sottostare alla traduzione/trasformazione dei titoli: puro marketing, “addomesticamento” di tecnicismi verosimilmente disorientanti, sovradeterminazione del senso, per limitarsi a questi esempi. Ci sono poi cambiamenti radicali del titolo per cui non trovo spiegazioni. È il mio terzo “caso”, il bel romanzo della scrittrice angloindiana Jhumpa Lahiri, che si presenta ai lettori italiani come La moglie (Guanda, 2013); un titolo come un altro, e niente da eccepire naturalmente, se fosse la traduzione di quello originale. Ma non è così: il “nome” che Lahiri dà alla sua storia è The Lowland (la “spianata”, come viene correttamente tradotto all’interno), un luogo preciso, circoscritto, e fortemente simbolico, che fin dalle prime righe ci investe dei suoi odori e colori, che sanno di palude e di marcio, ma anche di monsoni e di giacinti, di vita di morte e di rinascita. Scelta come scenario di apertura in una prima pagina intensamente descrittiva, the lowland ritorna più volte in primo piano, nei momenti chiave di questo romanzo che racconta di due terre (l’India e l’America), due fratelli, due identità e due destini. E di “una moglie”, certo, la moglie di tutti e due, figura complessa di moglie-vedova-madre, anche lei divisa tra due mondi e due culture: anche lei tormentata e smarrita nelle paludi di the lowland, il luogo che la sua narratrice ha scelto come segno pregnante di tutto questo.
L’ultimo “tradimento”, il più imperdonabile, mi riporta all’inizio, e a David Lodge. Affetto in questi ultimi anni da una grave sordità, lo scrittore racconta, con un’autoironia spietata che non rinuncia a effetti di irresistibile comicità, il graduale isolamento da quel mondo accademico che ancora una volta (l’ultima) è bersaglio della sua satira, ma con un penoso rovesciamento di prospettiva in cui equivoci, incomprensioni e piccole vanità sprofondano lentamente nel brusio ovattato e confuso della propria lontananza. Un capolavoro di equilibrio tra comico e tragico che l’autore racchiude in un titolo geniale e (questo sì!) davvero intraducilbile: Deaf Sentence (Penguin, 2008), giocato sull’omofonia tra deaf e death.Intraducibile dunque, come Lodge riconosce nella Dedica ai suoi traduttori, con i quali amabilmente si scusa; ma qualunque soluzione a questa sfida inevitabilmente perdente sarebbe stata preferibile, a mio avviso, al cattivo gusto di quel Il prof è sordo (Bompiani, 2009) che riesce in due parole a mettere in ridicolo l’autore, i sordi e (meno grave, certo) anche i poveri professori, che quel nomignolo da cinepanettone lo sopportano a malapena dai loro studenti.
giovanna.mochi@unisi.it
G Mochi insegna lingua e letteratura inglese all’Università di Siena