Interpretare i nostri simili con l’auspicio della Malinche
di Maria Cristina Secci
dal numero di marzo 2018
Bienvenidos a Coyoacán, il magico quartiere coloniale a sud di Città del Messico, ben noto ai turisti per la Casa Azul di Frida Kahlo, la sconfinata città universitaria e il vivace mercato di frutta e artigianato. L’escursione di oggi però imboccherà un’altra strada, sarà come un tour messicano del traduttore, sotto l’impulso di quel “condurre oltre” dell’originario transducere.
La prima tappa ci mostra la Plaza de la Concepción, una deliziosa piazzetta alberata con una cappella barocca, da tutti chiamata con il diminutivo che fa eco alle donne messicane di nome Concepción: Conchita. Nonostante la storia assicuri altro, la leggenda ci rivela che la Casa Colorada a ridosso della piazzetta, realizzata in roccia vulcanica rossa (meglio nota come Casa de Malintzin o de la Malinche o di doña Marina, qui ribattezzata come Casa de la Traductora), fu dimora di Hernán Cortés, arrivato a Coyoacán nel 1521, e della Malinche, la sua interprete indigena. Nata ai primi del 1500 nella regione di Veracruz e in seno a una famiglia nobile, l’etimologia del suo nome – Malineli Tenepatl – ne evoca l’indole: colei che parla con vivacità. Pur primogenita, dopo la morte del padre, venne estromessa dalla propria casa per assicurare l’eredità al fratellastro e ceduta come schiava a commercianti dello Yucatán. Arrivò a Cortés nel 1519 assieme ad altre 19 schiave; lo affiancò durante la conquista come interprete dal nahuatl, la sua lingua madre, e dal maya che apprese in Tabasco; per il condottiero spagnolo, vestì il ruolo di fidata informatrice e consigliera. Si dice che senza l’aiuto della Malinche forse l’impero azteco sarebbe sopravvissuto. Questa leggendaria donna incarna l’esempio più calzante del binomio traduttore-traditore: è risaputo che per poter sfuggire all’accusa, la traduzione – come la patria – non dovrebbe subire perdite né contaminazioni. Il tradizionale anonimato del traduttore (quell’autore invisibile nelle conversazioni tra Roberto Bolaño e Ricardo Piglia) avrebbe pure potuto preservarla dall’insinuazione di tradimento, ma finì nei libri di storia e sulla bocca di chi, per insinuare un’antipatica esterofilia, si riferisce ancora oggi al malinchismo.
Juan Villoro, la traduzione come apprendimento e pratica letteraria
L’affascinante traduttrice indigena – al di là dello stereotipo del tradimento, a cui fa contrappeso quello del meticciato per via di Martín, il figlio che ebbe con Cortés – gode di pagine e pagine di letteratura e di prestigiosi ritratti: dal codice fiorentino del XVI secolo che la ritrae a Tenochtitlán nel suo ruolo di interprete al fianco di Cortés e in presenza di Montezuma II, al bello e sensuale ritratto realizzato da Diego Rivera, coi capelli sciolti e le gambe tatuate. Di lei oggi se ne riscatta il ruolo e le si attribuisce “l’inquietante stupore dei traduttori: comprendere che l’estraneo, e persino il nemico, possono avere un senso”.
L’autore del frammento appena citato e della rispettiva crónica (giornalismo narrativo) pubblicata sul quotidiano “Reforma”, è Juan Villoro, che vive nello stesso Barrio de Coyoacán. Penna eccellente, fu tra le sue pagine che trovai la spiegazione alla mia scelta di emigrazione durata 15 anni: il ritratto di Città del Messico come una metropoli nomade, un fenomeno insolito che permette ai suoi abitanti di cambiare città senza muoversi. Nonostante in una intervista definisca le proprie traduzioni “figli solitari di un padre disperso” per essere uno scrittore che a volte traduce, Villoro nasconde quell’autore nell’autore: il traduttore. In questa seconda tappa del nostro tour, ci riferiamo dunque al lato più nascosto della sua produzione: le versioni dal tedesco e dall’inglese di Schnitzler, Greene, Lichtenberg, von Rezzori, Capote ecc. In più di un’occasione, Villoro ha evidenziato il ruolo privilegiato offerto dall’esercizio della traduzione associandola all’apprendimento: “Ritengo sia un’opportunità straordinaria per uno scrittore, perché permette di addentrarsi nei misteri di altri autori e di un altro libro, di seguirne tutte le decisioni e la scelta delle espressioni”. Se è uno scrittore a tradurre, qual miglior regalo per un lettore? La stessa fortuna tocca a un traduttore se l’autore, sul cui testo lavora, conosce e pratica il suo mestiere. Villoro fornisce poi importanti spunti sulla teoria e sull’esperienza del tradurre attraverso due saggi dedicati: il primo s’intitola El traductor (2000) e l’altro rimanda a una promessa struggente: Te doy mi palabra (2012). In questo saggio, l’autore rievoca il calvario del Colegio Alemán, l’istituto scolastico a Città del Messico dove, in tenerissima età, imparò a leggere in tedesco. Da adulto, durante un soggiorno a Berlino Est, furono le strade e i caffè a metterlo in contatto con le sfumature e i suoni che una lingua acquisisce solo nel posto in cui viene parlata: “Man mano che quella lingua cresceva come un organismo vivo, riemergeva il consiglio fondamentale che mi aveva dato Sergio Pitol: ciò che determina la qualità di una traduzione è la forza della lingua di arrivo”. Era stato lo stesso Pitol a spiegargli l’importanza della traduzione come pratica letteraria: cercare equivalenti per ogni parola amplifica la lingua madre perché obbliga a esprimere cose impreviste.
Questo richiamo alla vitalità di una lingua non può che condurci verso un’altra tappa coyoacanense del nostro tour: il giardino della casa dell’antropologo e sociologo Roger Bartra, composto da un fitto prato verde e da un muro naturale di roccia lavica nera. Una scorza elegante come la sua opera, che ho in parte potuto tradurre sotto l’auspicio, questa volta, di un ajolote (un anfibio endemico in Messico, ma questo è un altro tour): dedicò il suo discorso di ingresso nell’Accademia messicana della lingua a quella che definì un’inquietante trilogia: traduzione, tradimento e tradizione. La sua analisi, nutrita di scienza e umanesimo, arrivava alla formidabile conclusione: “Parafrasando ciò che Seneca dice sul genio e la follia, si potrebbe affermare che non ci sono relazioni umane senza un pizzico di incomunicabilità. Non c’è compagnia senza un punto di solitudine. Per questa ragione, la tradizione e la traduzione sono sempre accompagnate dal tradimento”. Il suo discorso si chiudeva con un auspicio per l’Accademia della lingua e, per estensione, per tutte le accademie: ammettere e stimolare una dose di tradimento nell’uso del linguaggio. “Ciò avrà delle ripercussioni sul rafforzamento delle tradizioni necessarie” concludeva “e sulla vitalità della quotidiana traduzione che dobbiamo intraprendere per interpretare i nostri simili e per capire il mondo che ci circonda”.
Senza interrompere il nostro tour, imbocchiamo ora quella che si considera una delle più belle vie coloniali di Città del Messico, Calle de Francisco Sosa, per ammirare la casa dove visse e morì Octavio Paz (“Imparare a parlare è imparare a tradurre”). Proseguendo troviamo la casa di Jorge Ibargüengoitia. Anche lui lavorò come traduttore e interprete, forse per cercare di fronteggiare i problemi economici derivati anche dall’acquisto del terreno e della casa di Coyoacán. I temi dei suoi romanzi, racconti, articoli spaziano dalla storia del Messico – la storia forse più dolorosa, quella di una rivoluzione tradita, che prometteva giustizia sociale e che, invece, finì col produrre solo corruzione e l’incremento del divario sociale – fino alla sua storia personale, costruita attraverso episodi ed esilaranti aneddoti. Fu tra i primi autori che lessi dopo che mi trasferii in Messico nel 1999 e il primo che tradussi. Tra tutte le edizioni di Ibargüengoitia, me ne regalai una di La ley de Herodes (1967) autografata dall’autore e dedicata garbatamente alla sua traduttrice, che non ero – evidentemente – ancora io. Quel libro mi costò carissimo e fu l’inizio di una imprescindibile esperienza perché, come ha ben detto Italo Calvino, tradurre è il vero modo di leggere un testo.
mcristinasecci@yahoo.it
M C Secci insegna lingua spagnola e traduzione all’Università di Cagliari