L’incruento e fertile duello tra Pavese e Rosa Calzecchi Onesti
di Alessandro Iannucci
dal numero di febbraio 2018
Il recupero ideologico del classico nel primo Novecento da parte delle élite vicine al fascismo sembrano dar vita in Italia come in Germania, a una singolare continuità del neoclassicismo. Mentre nel resto d’Europa, proprio a partire da Omero, si avviano interpretazioni radicalmente nuove, illuminate dalla prospettiva antropologica e libere dai vincoli del modello, nella cultura italiana permangono letture impastate di retorica in cui prevale l’urgenza della riappropriazione dei testi. Ettore Romagnoli, in particolare, sviluppa un grandioso progetto di traduzione dei classici che inaugura con Zanichelli un nuovo mercato editoriale ancora oggi protagonista: Eschilo (1921), Aristofane (1924-27), Sofocle (1926), i Lirici (1932-36) e naturalmente Omero (l’Odissea nel 1923 e l’Iliade nel 1924). Romagnoli fu un grande divulgatore, sinceramente interessato a una diffusione dei classici al di fuori dei circuiti accademici: pubblicista brillante e polemista arguto nei giornali e nelle riviste culturali, promotore di rappresentazioni dei testi teatrali classici, prima a Padova con i suoi studenti, poi a Siracusa inaugurando nel 1914 la lunga stagione dell’Istituto nazionale del dramma antico. L’acceso antifilologismo e la spontanea adesione al fascismo hanno sicuramente pesato negativamente nel complessivo giudizio su Romagnoli. Si è così forse trascurato il lato più innovativo e in straordinario anticipo sui tempi del suo profilo: la generosa attenzione rivolta a una comunicazione pubblica del proprio sapere, oggi tanto in voga nell’ambito della cosiddetta terza missione universitaria.
In ogni caso la sua traduzione omerica resta confinata nella propria epoca ed esprime una cultura ancora legata ai modi del rifacimento letterario. Come nei precedenti esperimenti di Pascoli (1899) e in quelli successivi di Quasimodo sull’Iliade (1966 e 1968 con illustrazioni di de Chirico) il traduttore non accetta di farsi da parte, di rendersi quasi “trasparente” – come suggeriva Benjamin – per non coprire l’originale, ma al contrario lo pervade con la sua personale poetica fino a trasformarlo in una nuova opera, quasi imitazione e riscrittura dell’ipotesto piuttosto che versione in grado di riprodurne, per quanto in modo sbiadito, significati e significanti.
La lingua utilizzata è quella della tradizione poetica italiana; il neoclassicismo si coniuga con gli esiti delle poetiche tardo-ottocentesche e del primo Novecento, in un intreccio che ha come risultati un vocabolario aulico e antico, anche quando siano esplicitamente ricercate semplicità e immediatezza. È una lingua altra, del tutto artificiale e sempre più distante dalla prosa che in Svevo e Pirandello è ormai modernamente priva di eccessivi reticoli letterari; una lingua poetica che riflette gli orizzonti di attesa di una comunità ristretta e che offre anche a Omero un volto affatto diverso rispetto al fervore degli studi e delle trasformazioni di quegli anni. Mentre Parry e Lord rivoluzionano ogni concezione letteraria di Omero, rivelandone la spontaneità orale del linguaggio formulare, le versioni di Romagnoli, Pascoli, Quasimodo sembrano confermare l’idea che Omero sia una palestra in cui la cultura letteraria italiana possa e debba esercitare la propria necessità di appropriazione, l’ostinata ricerca di radici culturali che si rivelano falsificazione del modello. L’Omero di Romagnoli è il cantore di un eroismo virile, diretto erede del biancore neoclassico di Monti. Quello di Pascoli è più intimo e segnato da una tensione poetica personale straripante, fitta di simboli e di sentimentalizzazioni; a sua volta Quasimodo riproduce nel testo di partenza i lampi delle sue inquiete e talora oscure visioni.
La svolta della traduzione di Rosa Calzecchi Onesti
In questo scenario, a metà del secolo, tra il primo dopoguerra e gli anni del boom economico, emergono improvvise due nuove tensioni nell’approccio ai classici, espresse dai principali protagonisti del cambio di passo della cultura letteraria italiana, Pavese e Pasolini.
Pavese, come noto, fu tra i promotori di una nuova stagione culturale legata alla casa editrice Einaudi, nata da una confraternita di allievi del liceo torinese D’Azeglio di cui era parte insieme allo stesso Luigi Einaudi, a Norberto Bobbio, a Massimo Mila e Carlo Ginzburg, modellata forse sulle suggestioni del poeta americano Walt Whitman, oggetto della sua tesi di laurea (1930) e poi al centro del celebre, e drammatico, magistero del professor Keating (Robin Williams) nel film L’attimo fuggente (1989). L’attenzione ai miti mediterranei, all’etnologia e alla storia delle religioni che diede vita alla famosa collana viola, e soprattutto l’insoddisfazione per quell’Omero letto attraverso la lente deformante del neoclassicismo spingono Pavese a cercare una nuova traduzione che restituisse finalmente l’autenticità dell’antico. Si rivolge quindi a un grecista come Untersteiner, tra i primi in Italia a prestare attenzione alle funzioni e ai significati originari del mito. Untersteiner, a sua volta, propone a Pavese una giovane allieva milanese, Rosa Calzecchi Onesti cui subito è affidato nello scetticismo generale un progetto di traduzione interlineare dell’Iliade in cui a ogni verso greco corrisponda una linea di testo in italiano. Nasce il fortunato modello dei classici con il testo a fronte in cui la versione tradotta non sostituisce il testo originale e non ne rappresenta l’ennesimo rifacimento, ma si propone piuttosto di guidare il lettore a una comprensione autentica, a suo modo filologica perché fedele e aderente al testo. Lo stesso Pavese aveva sperimentato questa modalità negli inediti o postumi abbozzi di traduzione della Teogonia di Esiodo o del IX canto dell’Odissea, cercando una corrispondenza assoluta tra le parole e il loro ordine nell’originale a costo di violare la sintassi della lingua italiana. Tra Pavese e Calzecchi Onesti nasce una collaborazione straordinaria, il famoso “incruento duello” in cui sono dibattute molte scelte traduttive; ma fin dall’inizio grava sulla giovane traduttrice il dubbio che la responsabilità finale dell’opera, o almeno di gran parte di essa, sia in realtà da attribuire al ben più famoso e autorevole scrittore. Gli studiosi ancora ne discutono, spulciando nella fitta corrispondenza tra i due conservata presso il Fondo Einaudi dell’Archivio di Stato di Torino. In ogni caso l’Iliade einaudiana esce nel 1950, dopo il suicidio di Pavese avvenuto il 26 agosto 1950, mentre Calzecchi Onesti ne correggeva le bozze e intanto già preparava la traduzione dell’Odissea che sarà poi pubblicata solo nel 1963. Nella sua ultima lettera alla traduttrice datata 25 luglio di quella stessa estate, ambiguamente, Pavese sembra quasi prendere congedo da un’opera che aveva almeno in parte avvertito come propria e le scrive, a proposito delle sue prime prove sull’Odissea, che ormai tradurre Omero le “riusciva benissimo, come la frittata” e che a questo punto non avrebbe più avuto bisogno di lui. In una lettera del 1948, nelle fasi iniziali di questo felice ma fin troppo breve incontro, Pavese aveva invece fissato l’ambizioso obiettivo di “rendere contemporaneo Omero”. E davvero questo irripetibile – e rapidissimo – lavoro aveva restituito al poema almeno in parte il suo carattere ancestrale e orale. La traduzione era programmaticamente intesa come oggettiva, sfrondata da ogni abbellimento tipico dei rifacimenti e ambiva ad essere strumento in grado di riflettere e accostare l’originale greco. L’utilizzo a volte straniante del sistema di traduzione rigo per rigo consentiva sia di seguire il testo antico sia di marcarne la distanza rispetto al lettore moderno. Il progetto coglie nel segno. La traduzione di Calzecchi Onesti rappresenta una svolta epocale: ha segnato intere generazioni di studenti, studiosi e lettori per oltre mezzo secolo, consegnando finalmente Omero a una lettura antropologica e contemporanea, libera da vincoli monumentali.
A breve distanza di tempo, in quello stesso decennio Pasolini si rivolgerà ai classici con l’urgenza creativa dello scrittore che intende manipolarne i testi, anche attraverso forme di riscrittura più che di traduzione o meglio di “traslazione”, come la famosa versione in romanesco del Miles gloriosus di Plauto intitolata Il vantone (1963). In quelle stesse rappresentazioni siracusane in cui ancora andavano in scena le vecchie versioni di Romagnoli, la Orestiade di Pasolini (1960), ancorché con qualche errore di traduzione, è una svolta altrettanto significativa del progetto omerico di Pavese (e Calzecchi Onesti). Mentre la ricerca scientifica produce e sviluppa nuove interpretazioni e teorie critiche – con la scoperta del lato oscuro e irrazionale dei Greci da parte di Dodds e con gli studi di antropologia storica della scuola francese di Vernant – l’Iliade einaudiana e l’Orestiade di Pasolini hanno il grande merito di contribuire a quel decisivo cambiamento di prospettiva che sgombra definitivamente il campo da ogni tentazione neoclassica o neoumanista e che restituisce i classici alla cultura del proprio tempo e a una lettura ben oltre gli ambiti dei rituali di apprendimento scolastico e universitario o gli esoterismi accademici degli addetti ai lavori.
Ma la contemporaneità di Omero, raggiunta nel 1950 e durata ben oltre le aspettative va continuamente aggiornata. Le scelte traduttive di Calzecchi Onesti quasi sempre risultavano un radicale svecchiamento del testo omerico dalle briglie di una lunga tradizione letteraria; ma questa traduzione mostra tutti i suoi anni e ora, paradossalmente, è suo malgrado aulica, infarcita di latinismi e parole sentite ormai come arcaicizzanti. Progettata perché fosse semplice e trasparente, oggi non è quasi più comprensibile senza un ricco apparato di note a esegesi della lingua italiana più che di Omero. Eppure gli effetti di questa operazione editoriale rivoluzionaria permangono ancora nel suo principale risultato: l’esigenza di attualità che impone di riproporre continuamente nuove traduzioni, sia perché in specie quelle omeriche invecchiano in fretta, sia perché lo scenario interpretativo si trasforma costantemente.
alessandro.iannucci@unibo.it
A Iannucci insegna lingua e letteratura greca all’Università di Bologna
I libri
- “Un compito infinito”. Testi classici e traduzioni d’autore nel Novecento italiano, a cura di Federico Condello e Andrea Rodighiero, Bononia University Press, 2015
- La Nekyia omerica (Odissea XI) nella traduzione di Cesare Pavese, a cura di Eleonora Cavallini, Edizioni dell’Orso, 2015
- Omero mediatico. Aspetti della ricezione omerica nella civiltà contemporanea, a cura di Eleonora Cavallini, DuPress, 2007
- Omero, Odissea, prefazione di Fausto Codino, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1963
- Omero, Iliade, a cura di Cesare Pavese, trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1950
Nel numero di gennaio 2018 è stata pubblicata la prima parte dell’approfondimento dedicato ai traduttori di Omero: Da Livio Andronico a Vincenzo Monti.
Nel numero di luglio/agosto 2018 è stata invece pubblicata la terza e ultima parte: I traduttori di Omero: le nuove sfide della contemporaneità.