Perché non taglia, perché non stringe?
di Antonietta Pastore
dal numero di luglio/agosto 2013
Per ricordare in che anno ho iniziato a tradurre Murakami Haruki, ho dovuto andare a ripescare, tra i vari documenti che conservo nel mio archivio, il contratto che stipulai a suo tempo con la casa editrice che mi commissionò la traduzione del primo volume di L’uccello che girava le viti del mondo: 30 luglio 1997. Il titolo del romanzo era scritto in inglese (The Wind-up Bird Chronicle), quello italiano glielo misi io, cercando di rendere nel modo più adeguato quel NejimakidÙri kuronikku (Cronache dell’uccello-giraviti) di cui compresi il significato soltanto dopo aver letto alcuni capitoli del libro. Sono sedici anni, dunque, che pagina dopo pagina, volume dopo volume, porto le opere di Murakami nelle mani degli italiani, le sue storie nelle loro vite e nei loro cuori. Il mio incontro letterario con questo scrittore – uno scrittore che avrebbe occupato un posto tanto importante nella mia attività lavorativa – è avvenuto verso la metà degli anni ottanta, quando vivevo in Giappone. Stavo andando in treno da Osaka a Tokyo, e per la prima volta mi cimentavo nella lettura di un libro giapponese in lingua originale: quel libro era Nel segno della pecora. Se avevo scelto proprio quel romanzo, era perché degli amici mi avevano garantito che, una volta iniziato, non sarei riuscita a staccarmene, che il desiderio di andare avanti mi avrebbe aiutato a sormontare tutte le difficoltà. E le cose andarono esattamente così.
Mentre in treno leggevo dunque Hitsuji-o meguru bÙken (Avventura alla ricerca della pecora), non immaginavo nemmeno lontanamente che molti anni dopo l’avrei tradotto nella mia lingua. Che di Murakami Haruki avrei volto in italiano diverse opere, romanzi, racconti brevi, saggi, tanto che quest’autore è diventato ormai una presenza periodica nella mia vita professionale, vale a dire nella mia vita tout court. Perché la traduzione letteraria non è un lavoro da cui si possa “staccare” chiudendo il computer, continua a occupare in modo più o meno conscio la mente anche quando si sta pensando ad altre cose.
Tradurre, si sa, è un lavoro che si fa per passione. Non ci può essere un altro motivo al mondo per indurre una persona a dedicare mesi e anni a un’attività mal pagata che dà pochissima visibilità. Proprio perché lo si fa per passione, però, la condizione sine qua non è che si traduca un autore che piace, altrimenti il risultato sarà deludente. Se non si crea una simbiosi con l’autore, nessun traduttore – per quanto buona sia la sua conoscenza della lingua d’origine di un’opera, e la sua padronanza della propria – riuscirà a far rivivere un libro in un’altra lingua. Ora, tradurre Murakami a me piace. Mi piace perché racconta il Giappone quale l’ho conosciuto io, parla di persone come quelle che ho incontrato durante i sedici anni che ho trascorso in quel paese e fra le quali mi sono fatta degli amici, descrive la vita di ogni giorno; e in questo modo avvicina il lettore italiano a un popolo in apparenza tanto lontano, gli permette di scoprire che i giapponesi fanno più o meno le stesse cose che fa la gente in Italia e ovunque nel mondo industrializzato, che comprano più o meno gli stessi prodotti, ascoltano la stessa musica, addirittura mangiano spesso le stesse cose. E hanno lo stesso nostro bisogno di evadere con la fantasia dalla routine quotidiana.
Perché è questo che Murakami permette al lettore di fare: lo introduce in un’atmosfera in apparenza banale, nella vita di un personaggio anonimo che potrebbe essere ognuno di noi – un vicino di casa, un collega di lavoro – e lo porta a poco a poco in una dimensione fantastica. Quasi inavvertitamente i suoi protagonisti varcano una soglia proibita al di là della quale si apre un mondo diverso, irreale eppure descritto in maniera dettagliata e verosimile: verosimile perché dettagliata, credibile perché trova riscontro nei fantasmi, nelle paure, nei desideri presenti nel nostro inconscio. Di conseguenza, tradurre Murakami significa seguirlo in un viaggio straordinario – in una dimensione solo in apparenza al di fuori della realtà, perché è dentro di noi che si trova – con la consapevolezza di trascinare con sé il lettore. Ogni sua cosa che ho tradotto – dai romanzi lunghi come L’uccello che girava le viti del mondo o La fine del mondo e il paese delle meraviglie, a quelli brevi come After dark, ai racconti – mi ha dato quest’impressione.
A volte mi sento chiedere se preferisco tradurre Murakami Haruki o Natsume Soseki, altro scrittore di cui ho tradotto molte opere. E ogni volta rispondo che è una domanda cui non so rispondere. Si tratta di due generi di scrittura così lontani l’uno dall’altro – nei temi, nelle atmosfere, nello stile – che un confronto non è possibile. Soseki è un autore classico dei primi del Novecento, considero tradurlo un privilegio, entro nella sua scrittura con devozione, sedotta dalla sua ironia e dalla sua poesia.
Murakami, che appartiene alla mia generazione, è come un amico di vecchia data, dopo anni di frequentazione assidua ne conosco i pensieri, le abitudini, le debolezze e le manie; ne intuisco le motivazioni e i fini, ne condivido le idee su molti argomenti, ne apprezzo le intenzioni, mi sento vicina a lui anche per carattere. Come lui, amo la solitudine, e questo mi aiuta a calarmi nei panni di tanti suoi personaggi: di una persona che si cucina cene semplici ma buone ascoltando la radio, che ama la musica jazz, che guarda videocassette di vecchi film e aspira a vivere tranquilla, ma in seguito a qualche evento in apparenza banale – una telefonata, la scomparsa del gatto di casa – viene coinvolta in una storia assurda. Come accade con i vecchi amici, a volta succede che Murakami mi irriti, o mi stanchi. Non perché i suoi testi siano particolarmente difficili, al contrario: scrive in un lingua piuttosto semplice che riproduce quella parlata, e non usa molti ideogrammi. Ma quando ripete quattro volte l’espressione “fazzoletti di carta” in una pagina, quando descrive maniacalmente i gesti che un personaggio compie nel lavarsi e nel vestirsi, o fa una dettagliata lista della spesa, confesso sinceramente che qualche improperio glielo lancio. Ma perché non taglia, mi chiedo spesso, perché non stringe? Tanto più che a tradurre si impiega molto più tempo che a leggere, e certe pagine mi sembrano interminabili. Poi, quando rileggo quello che ho scritto, mi rendo conto che invece ha ragione lui: perché nella vita succede proprio così, la gente dice e ridice sempre le stesse cose, ripete gli stessi gesti, cede alle proprie manie, e il fatto di rappresentare la realtà senza abbellirla è quello che rende i personaggi di Murakami così vicini al lettore, così umani e veri, le sue atmosfere così familiari e intime.A volte mi sento chiedere se preferisco tradurre Murakami Haruki o Natsume Soseki, altro scrittore di cui ho tradotto molte opere. E ogni volta rispondo che è una domanda cui non so rispondere. Si tratta di due generi di scrittura così lontani l’uno dall’altro – nei temi, nelle atmosfere, nello stile – che un confronto non è possibile. Soseki è un autore classico dei primi del Novecento, considero tradurlo un privilegio, entro nella sua scrittura con devozione, sedotta dalla sua ironia e dalla sua poesia.
Ci sono poi momenti in cui il coinvolgimento emotivo con il testo che devo tradurre è talmente forte, che per poter lavorare devo prendere le distanze. Questo mi succede soprattutto quando mi trovo davanti a descrizioni di violenza: donne stuprate, uomini scorticati vivi e altre amenità del genere. In questi casi, superato l’impatto emotivo suscitato dalla prima lettura, mi occorre fare come il chirurgo davanti al tavolo operatorio, mettere da parte la mia sensibilità per concentrarmi sull’accuratezza della traduzione. Tanto so che la violenza, nelle opere di Murakami, non è mai fine a se stessa, ma fa parte di una trama il cui senso profondo esprime una concezione dell’umanità e della società che condivido pienamente.
L’unica volta in cui non sono riuscita a prendere questa distanza dal testo, è stata quando ho tradotto Underground, il racconto dell’attentato al sarin avvenuto nella metropolitana di Tokyo nel marzo del ’95. Il fatto che non si trattasse di fiction, ma di storie vere di sofferenza, mi commuoveva al punto di impedirmi ogni distacco professionale. Nel volgere in italiano le parole del fratello di Akashi Shizuko, gravemente danneggiata in tutte le funzioni vitali a causa dell’intossicazione, o della moglie e dei genitori di Waka IchirÙ, morto in ospedale senza aver ripreso conoscenza, non riuscivo a reprimere la tristezza e lo sdegno. Tristezza e sdegno che sentivo di condividere con Murakami. Per questa ragione, di tutte le sue opere, Underground è quella che mi è più cara.
Se poi dovessi indicare quella che più mi sono divertita a tradurre, sarei in difficoltà. Più che dei libri interi, mi hanno stimolato alcuni passaggi di certi romanzi, o alcuni racconti. Per quanto strano possa sembrare, rendere in italiano la nefandenzza del laido personaggio di Ushikawa, in L’uccello che girava le viti del mondo, è stato un vero spasso, così come mi ha affascinato riprodurre l’atmosfera spettrale della città-fantasma in La fine del mondo e il paese delle meraviglie, o il carattere leggendario della storia dei coloni in Nel segno della pecora. Quanto alla vivacità e al ritmo incalzante di Una ragazza perfetta al 100%, uno dei racconti che fanno parte della raccolta L’elefante scomparso, credo sia stato il momento di maggior entusiasmo nel mio rapporto con la scrittura di Murakami Haruki.
antonietta.pastore@tin.it
A Pastore è saggista e traduttrice dal giapponese e dal francese