Come i palombari
di Isabella Mattazzi
dal numero di aprile 2018
Mi chiedo spesso quanto la mia formazione di accademica influisca sulla mia attività di traduttrice. Come molti, non sono un traduttore puro, ma resto principalmente una studiosa prestata alla traduzione. Questa condizione, apparentemente poco significativa per quanto riguarda la specificità del gesto traduttivo – poco importa chi sei, verrebbe da dire, importa come traduci – in realtà pone diverse questioni di carattere teorico su cui mi è capitato di soffermarmi e che, almeno nel mio caso specifico, hanno definito in modo abbastanza radicale la mia identità e il mio modo di vedere la traduzione. Innanzitutto la differenza tra un traduttore-critico e un traduttore editoriale è che il rapporto con il testo non si esaurisce nel momento della pubblicazione, ma continua a irradiarsi per un tempo indefinito. Tutti i romanzi che ho tradotto sono stati anche e soprattutto testi di studio, molte volte ne ho curato la prefazione, ne ho scritto in altre sedi, li ho proposti a lezione in università, li ho aperti, smembrati, riassemblati insieme agli studenti. Sono tutti testi che, in un modo o nell’altro, hanno continuato a ritornare nella mia vita anche a distanza di anni, perché ogni percorso critico non è altro che un continuo andare e riandare verso temi e ossessioni che di fatto non si risolvono mai.
Il lavoro del traduttore-critico comporta quindi una riflessione sul testo anche quando l’atto traduttivo è concluso. La traduzione è soltanto un momento puntuale all’interno di un flusso interpretativo proiettato su un orizzonte senza limite. Questa idea di fluidità interpretativa si estende verso un futuro indefinito (finché avrò facoltà di scrivere, le mie traduzioni vivranno, saranno “agite” ogni volta che il mio sguardo interpretativo lo richieda), ma è anche retrospettiva. Quasi tutti gli autori che ho tradotto facevano già parte di me molto prima che iniziassi a tradurli, anzi, la scelta di proporli nella mia lingua è stata quasi sempre influenzata proprio da questa frequentazione pregressa. Anni fa ho tradotto il mio primo romanzo, Il diavolo innamorato di Jacques Cazotte, anche e soprattutto perché non c’era in commercio una traduzione con un’introduzione e un apparato critico di cui poter discutere con gli studenti. Lo stesso discorso vale per Future umanità di Yves Citton. Tradurlo per me voleva dire cercare di creare uno spazio di pensiero condiviso presentando in Italia un autore e un pensiero filosofico a me molto vicini.
Il traduttore-critico, rispetto al traduttore editoriale, in genere sceglie cosa tradurre in base al suo personalissimo percorso interpretativo. Tutte le opere su cui ho lavorato in traduzione mostrano una coerenza tra loro evidente, hanno un’aria di famiglia che riconosco come affine. La mia identità di critico precede quindi sempre la mia identità di traduttore. Sulla scelta dei testi la strada è in un certo senso già segnata e il caso ha un’influenza minima oppure, per una strana eterogenesi dei fini, segue comunque l’andamento della mia ricerca.
Tradurre è un esercizio da palombari
Se il pensiero critico precede le traduzione, questo però non vuol dire affatto che la imposti e moduli. Retrospettivamente mi accorgo che la verità del testo è sempre sovrana. Non c’è mai stato un caso in cui una mia traduzione venisse sottoposta a una qualche torsione ideologica dovuta a una mia precedente ipotesi interpretativa, mentre è assolutamente vero il contrario. Il testo da tradurre più che un punto di arrivo è un punto di partenza, o comunque uno snodo nevralgico nella ricerca di senso che la letteratura impone. Rispetto al lavoro del critico, la convivenza forzata del traduttore con il testo, il suo sguardo quasi schiacciato sulla pagina, porta a un affondo interpretativo molto più incisivo, radicale.
Tradurre, del resto, è un esercizio da palombari. Entrare in un libro è un’operazione immersiva. Una volta attraversata la superficie della pagina il respiro si fa diverso, il pensiero segue logiche altre, i rumori del mondo arrivano attutiti. Ogni volta che traduco un libro nuovo mi accorgo del procedere del mio lavoro dalla sensazione di insofferenza che mi dà il rumore del quotidiano. Inizio a non rispondere al telefono, non sopporto il citofono, mi dà fastidio il riquadro rosso delle mail che si illumina in basso sullo schermo del portatile. In quel momento allora capisco che il “mondo di sotto” ha iniziato a operare su di me. Per chi pratica le immersioni si dice che uno dei rischi, il più terribile, sia la narcosi da azoto, detta anche ebbrezza da alti fondali. Più scendi in profondità e più vorresti scendere, e più scendi più le logiche degli abissi si sovrappongono alle tue, più la tua presenza lì diventa importante, necessaria, anche se non sai spiegartene bene la ragione e non vuoi più tornare a casa. Io credo che un traduttore possa capire un palombaro più di ogni altro, uscire da una sessione di cinque-sei ore di traduzione è sempre difficile, si resta per qualche tempo storditi, assenti, altri a se stessi e al mondo.
Quando entra in gioco l'”umanità” del traduttore
Il rapporto tra un’opera e il traduttore veicola poi un’affettività che difficilmente potrebbe emergere con altre pratiche di lavoro sulla letteratura. Un traduttore per forza di cose contrabbanda con il testo scampoli di un’intimità che il filtro critico elimina e non trattiene. La traduzione è una condizione di aderenza alla pagina forzata e continuativa. Un traduttore quando lavora si porta appresso i suoi personaggi per mesi, fa colazione insieme a loro, viaggia in treno con loro, proiettando più o meno inconsciamente sulla pagina tutta una serie di elementi che andranno poi a costituire il tessuto psichico della traduzione, il timbro unico e personalissimo della sua lingua.
Sono perfettamente conscia che la voce di Simone de Beauvoir anziana in Malinteso a Mosca contenga echi di altre donne – ugualmente anziane e malinconiche – lette e amate nella mia giovinezza, che il lessico aristocratico della maga Malvarosa in Riccardin dal ciuffo di Amélie Nothomb abbia qualcosa di mia nonna, e che io stessa sia presente in Diane l’accademica di Colpisci il tuo cuore (ultimo romanzo nothombiano uscito in questi giorni), così come in Olivia, il suo doppio malvagio. Apparentemente questo gioco di compenetrazione osmotica tra autore-personaggio-traduttore potrebbe sembrare poco lucido, ma sono sempre più convinta che tradurre sia un atto indissolubilmente legato all’“umanità” del traduttore, alla sua natura di prodotto casuale di una serie di esperienze linguistiche, emotive, sensibili, poco ascrivibili a un principio ordinativo che si possa facilmente esportare da un traduttore a un altro.
In questo scambio osmotico si attua poi anche un qualcosa che la distanza critica spesso e volentieri non consente: la cura. Nel momento in cui il traduttore affonda le mani nella struttura di un’opera, in un certo senso se ne fa carico, si prende cura di lei. Mentre la fa passare da una lingua a un’altra ne spoglia letteralmente il corpo, lo guarda, nudo nel suo scheletro linguistico, ne rivela le fragilità, ne indovina le fratture e le ricompone. Con alcuni autori a me è successo il percorso inverso. Stare dentro un romanzo particolarmente amato, sapere che per tre, quattro, cinque ore al giorno c’era un luogo protetto che mi aspettava nonostante la stanchezza e gli affanni del quotidiano, ha molte volte curato me durante i lunghi mesi di lavoro sul testo. In Riccardin dal ciuffo, la maga Malvarosa, di professione cartomante, si accomiata sempre dai suoi clienti con un “vous êtes protégés”. Una protezione sugli uomini, di fatto, e una benedizione che a mio avviso riguardano l’essenza stessa della parola letteraria.
isabella.mattazzi@unife.it
I Mattazzi è traduttrice e insegna letteratura francese all’Università di Ferrara