Scusi lei, mi ama o no?
di Eleonora Marangoni
dal numero di marzo 2016
Darsi del “lei”, nella vita ma soprattutto nell’arte, non è solo questione di confidenza. Ha a che fare con l’ironia, si porta dietro intenzioni precise, una certa poesia.
Anche riemergendo da sospiri fatali e confessioni enflammées, nella Princesse de Clèves di Madame de La Fayette i personaggi si danno sempre e solo del “voi”: in quella Francia libertina e insieme intransigente, il vous mantiene intatta una precisa atmosfera che si disperderebbe in un attimo se Mademoiselle de Chartres si rivolgesse al duca di Nemours alla seconda singolare. Non è solo una questione d’epoca. Sarebbe lo stesso se Molly di Viaggio al termine della notte desse del “tu” a Bardamu (“Voi siete gentile, Ferdinando…”) ed è lo stesso incantesimo per cui in un recente film francese, il protagonista dice, stringendo fra le braccia la sua segretaria, “On sera heureux, vous verrez. On s’amera pour toujours. On ne se tutoyera jamais” (“Saremo felici, vedrete. Ci ameremo per sempre. Non ci daremo mai del tu”). Lingue come l’italiano, il francese o lo spagnolo sono regine di simili sfumature, mentre l’inglese, orizzontale per antonomasia, non usa il “lei” neppure con il re, dando filo da torcere a chi trova a traghettare storie da una lingua a un’altra.
La confidenza tradotta è una faccenda delicata, e viene da chiedersi come facciano i traduttori che lavorano dall’inglese a decidere che due personaggi debbano iniziare a darsi del “tu”. O meglio, a decidere di abbandonare un “lei” che di per sé non esisteva nemmeno, perché un traduttore che lavora dall’inglese verso una lingua che il “lei” lo prevede si trova obbligato a dar vita uno spazio che non esiste. In quel momento il traduttore è una sorta di regista: opera un movimento di macchina ben preciso, che non esiste nella versione originale ma è essenziale per lo svolgersi della storia e i suoi equilibri. Come funziona; esistono regole, meccanismi ricorrenti, un qualche tipo di consuetudine? Questa la domanda che ho rivolto qualche settimana fa a tre interessanti traduttori italiani contemporanei: Monica Pareschi, Silvia Pareschi e Nicola Manuppelli.
Ognuno di loro ha raccontato con parole ed esempi suoi il modo in cui elabora questo movimento. Naturalmente nei romanzi il passaggio dal “lei” al “tu” avviene il più delle volte per ragioni estremamente pratiche, e il traduttore agisce quindi perlopiù di pancia, mimando i modi e i tempi del reale, adattandoli alla storia che sta raccontando. Talvolta però, per produrre precise sfumature il traduttore decide di farli rimanere o tornare al “lei”, e li fa muovere in un territorio che nella vita vera non esiste, in cui la confidenza è provvisoria, reversibile o semplicemente negata. E il fascino della domanda sul “lei” e “tu” sta proprio nella wunderkammer di storie e contesti che una lingua come l’italiano sprigiona non appena la interroghiamo.
Monica Pareschi
Di mio sono una traduttrice abbastanza istintiva, ma dipende ovviamente da cosa devo tradurre. Sul contemporaneo è un problema abbastanza distinto, ma ci sono sempre passi che alla fine ti creano problemi.
Mi viene in mente una scena di seduzione in Malamud, Le vite di Dubin. Dubin è il classico studioso polveroso che se ne sta sempre chiuso in casa. Da lui arriva a servizio Fanny, una ragazza ha trent’anni meno di lui. Si danno sempre del “lei”, fin quando lei si mette in testa di sedurlo. Lui la rifiuta, anche quando lei gli si spoglia davanti. E, per la prima volta, le dà del tu. “Sei bellissima”, dice, “ma non posso”. È strano perché non è un “tu” intimo, o almeno non sessuale, ma protettivo, quasi paterno. Dubin ha una figlia dell’età di Fanny, e tratta la ragazza come fosse una bambina. Lei si offende, e ricominciano a darsi del “lei”. Più in là nel romanzo diventano amanti, partono insieme per Venezia e a quel punto, ovviamente, passano al “tu”. Ma quell’intermezzo che segue il rifiuto e precede l’inizio della storia d’amore è un interregno interessante, in cui ogni familiarità viene sospesa, e il ripristino alla normalità avviene in modo artificioso.
Mi occupo spesso anche di classici, e lì devi proprio decidere se e quando il passaggio avviene. Ci sono momenti di grande avvicinamento dei personaggi, semplici da risolvere. In Jane Eyre, ad esempio, il momento in cui Rochester e Jane si avvicinano per sempre è lampante: lui la stringe a sé, la invita a togliersi i vestiti bagnati… a quel punto non possono far altro che darsi del “tu”, in un modo definitivo, da cui non torneranno più indietro. Per molto tempo, però, Jane gli dà del “tu” solo dentro di sé, nella sua testa, mentre nei dialoghi espliciti resta sul “voi”: è il genere di accortezze che fanno la differenza, quando si traduce. Cime tempestose, che sto traducendo adesso, è tutta un’altra faccenda. Ci sono registri e dialetti molto diversi, spesso difficili da conciliare. Basta pensare all’italiano del resto, che da nord a sud oscilla con sbalzi di tono vertiginosi: il “tu” di un romano non pesa certo come quello di un milanese, men che mai di un torinese o di un siciliano. Nelly, la narratrice, è una domestica che è stata la tata dei bambini finché non son cresciuti. Heathcliff le dà del “tu” finché non fugge, poi quando torna – ed è diventato il personaggio odioso che tutti ricordiamo – passa al “voi”. Si tratta inoltre di un’opera in cui convivono classi sociali molto diverse: Thrushcross Grange e Wuthering Heights sono vicine solo geograficamente, ma hanno davvero poco a che spartire, e i rapporti fra le due case sono di una violenza pazzesca. La prima è quella che chiameremmo una casa “civile”, mentre a Wuthering Heights si dicono davvero di tutto, e ovviamente i registri son diversi. Prendiamo Joseph, il domestico. È un buzzicotto ignorante, augura ai suoi padroni cose terribili, tipo di bruciare all’inferno, e cita in continuazione la Bibbia, che è scritta, ricordiamocelo, tutta al “tu”. Anche quella è una scelta di tono notevole.
Silvia Pareschi
Insegno italiano agli americani, e quando arriva il momento di spiegare quella distanza quelli trovano difficoltà a capire, è un ordine del pensiero sconosciuto, che non sanno riprodurre. Per noi è ovvio dare del “lei” al commesso di un negozio in cui entriamo, per loro non è affatto immediato, devono aggiungere un passaggio che nella loro testa non esiste: lo stesso che dobbiamo aggiungere noi quando traduciamo. La personalità del traduttore poi influisce sempre sul modo in cui fa parlare gli altri. Io nella vita sono una che tende a dare del “lei”, quindi a volte devo fare uno sforzo, spingere i personaggi oltre i miei stessi formalismi.
Ultimamente ho lavorato a un romanzo scritto a quattro mani da Amy Hempell e Gilles Siment (sotto lo pseudonimo congiunto di A. J. Rich), The Hand That Feeds You. È una storia che aveva iniziato una loro amica comune, scomparsa di recente, e che loro hanno deciso di finire di scrivere. È un giallo, quindi non particolarmente difficile da tradurre. Ma la protagonista, Morgan, è la donna che porta avanti le indagini, e parla continuamente con gente che non conosce. Ogni volta dovevo decidere qual era il tono più giusto da farle usare. All’inizio del giallo trova un cadavere, sul luogo del delitto arriva un sacco di gente: i poliziotti le danno del “lei”, ma l’infermiera, un’afroamericana molto diretta, da subito la chiama honey, ed è ovvio che le sta dando del “tu”. Cioè, “ovvio”: è arbitrario e chiarissimo al tempo stesso, perché il modo in cui parla un personaggio, le parole che sceglie dettano inevitabilmente anche il modo in cui si traduce. Durante le indagini Morgan incontra una sua coetanea in un canile, all’inizio le ho fatto dare del “lei”, ma poi mi sembrava una forzatura, e son passata al “tu”. Inoltre gli americani si danno del “tu” quasi subito, non è come con gli inglesi, tutto evolve più velocemente. Ma anche per autori inglesi a volte il “tu” funziona meglio. Un esempio perfetto è Nancy Mitford: i protagonisti dei suoi romanzi sono dei nobili, è vero, ma non è Downton Abbey: lì tutti si conoscono fra di loro, sono ironici, sciolti: parlano sempre e solo al “tu”.
E poi è vero che in inglese il passaggio al “tu” non esiste, ma c’è in compenso il passaggio al nome proprio, che è un po’ il suo corrispettivo. Se un personaggio d’improvviso dice, ad esempio, “You can call me Tom”, la frase tradotta per noi equivale a “puoi darmi del tu”. A volte il “tu” arriva dopo un piccolo colpo di scena, come per sottolineare uno strappo nella storia e nel rapporto fra due personaggi. Nell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity, ad esempio c’è questo dialogo al telefono: “– Mi chiamo Hillary Smith, – disse. – Sa chi sono? – Mi scusi. Può ripetere il nome? – Hillary Smith. Dal cellulare uscì un silenzio di tomba. Poi Cynthia disse: – Sei la figlia di mio fratello”. Lì soltanto il “tu” può reggere: “Lei è la figlia di mio fratello” è una frase che non sta in piedi, forse solo in qualche vecchio film di spionaggio…
Nicola Manuppelli
Tendo sempre a preferire il “tu”, anche fra personaggi che si conoscono poco, ma poi dipende molto dall’idea che ho dell’autore. E poi tradurre dall’americano e non dall’inglese è molto diverso: come lo scrittore anche il traduttore ha un patto con il lettore, fatto di stili, consuetudini, distanze ben precise.
In autori come Salinger o come Charles Webb, ad esempio, il “lei” ha spesso sfumature ironiche, un lato molto comico, di sicuro effetto. In Fitzgerald è lo stesso, il “lei” si porta dietro una delicata ironia, lo uso quando i protagonisti sono giovani, un po’ impacciati, faticano a raggiungere l’intimità che vorrebbero. C’è un bell’esempio in un racconto che ho tradotto, Amore nella notte: “‘Mi dica qualcosa di più su di lei’, si affrettò a chiedergli. ‘Se è russo come dice, dove ha imparato a parlare un inglese così buono?’. ‘Mia madre era americana’, ammise lui. ‘Anche mio nonno era americano, così lei non ha avuto altra scelta’. ‘Allora anche lei è americano!’. ‘Sono russo’, disse Val con dignità. Lo guardò attentamente, sorrise e decise di non discutere. ‘Allora’, disse diplomaticamente, ‘suppongo che abbia un nome russo’. Ma lui non aveva intenzione di dirle il proprio nome in quel momento (…). Il suo nome non aveva alcuna consistenza di fronte a ciò che gli si stava agitando nel cuore.’Sei bella’, disse all’improvviso”. Completamente diverso il discorso per autori moderni come Roger J. Ellory. Il protagonista di Il circo delle ombre, Travis, è un agente dell’Fbi che da piccolo ha avuto dei traumi, è uno molto sulle sue, distaccato da tutti. Durante le indagini ha un flirt con un’inserviente dell’hotel in cui dorme, Laura. Lei cerca di sedurlo. Lui le dà sempre del “lei”, lei del “tu”, è un equilibrio strano, ma che rappresenta bene il carattere del personaggio e non poteva essere rappresentato altrimenti che con questa forzatura.Comunque tradurre è un mestiere strano, a volte ti trovi a nominare cose che non esistono, e devi trovare una soluzione o il tuo testo suonerà inevitabilmente stonato. La questione del “lei”/“tu” illustra bene il punto, ma è solo una parte del problema. Ci sono parole, termini che non hanno corrispettivo nella lingua di destinazione, e creano complicazioni affascinanti. Io, ad esempio, quando traduco i problemi più grandi li ho con i nomi di piante. Alcune specie, comunissime in America, da noi non esistono proprio, non hanno nome. E lì cosa fai? È come se la lingua non ti bastasse. Ecco che sei nei guai un’altra volta…