Una grande fatica ben ricompensata
Conversazione tra Martina Testa e Norman Gobetti
dal numero di febbraio 2016
Venerdì 15 gennaio 2016 si è aperto Sovvertere, un ciclo d’incontri sulla traduzione organizzato dal gruppo di studenti di lettere dell’Università di Torino Laboratorio Sogno o son testo, che ne ha curato la trascrizione per “L’Indice”.
Gobetti: Inizialmente, in Italia, tutti i libri di Wallace sono stati tradotti da esordienti, cosa che oggi sarebbe stranissima. Forse, all’epoca, Wallace non era ancora considerato un autore così importante. Poi la situazione professionale è cambiata.
Testa: È strano anche che tra i primi traduttori di Wallace ci siano stati Edoardo Nesi e Francesco Piccolo che sono degli scrittori. Effettivamente Wallace oggi non verrebbe dato a un esordiente, e non lo potrebbe prendere una piccola casa editrice. O forse oggi una piccola casa editrice ha preso un autore che tra quindici anni sarà il nuovo David Foster Wallace. Dopo la morte, la sua fama è cresciuta enormemente, ma per tanto tempo è stato un autore di nicchia. Tra l’altro credo che l’Italia sia l’unico paese dove tutto quello che ha scritto è stato tradotto.
Gobetti: Sì, Infinite Jest in Germania è stato tradotto nel 2008. In Francia è uscito solo adesso. Ma tornando a Wallace mi sono reso conto che soprattutto i racconti sono veramente difficili da tradurre. Che effetto ti ha fatto tradurlo? In particolare La ragazza dai capelli strani, che è uno dei suoi libri più difficili. E poi: questi tuoi lavori risalgono a una quindicina di anni fa, adesso che l’attenzione su di lui sta un po’ calando e se ne può parlare con maggiore distacco, se dovessi presentare Wallace a chi non l’ha mai letto, cosa diresti come traduttrice e lettrice?
Testa: È un autore molto complesso: ci sono dei pc che hanno una certa potenza e dei pc che hanno una potenza di calcolo superiore. Nella testa di Wallace passavano più idee, più dettagli, più collegamenti, più problemi, più paranoie, più di tutto quello che passa nel mio cervello. Era ossessionato dai dettagli, sviscerava fino all’ultimo: era incapace di scrivere un pensiero banale o approssimativo. La sua è una scrittura complessissima in cui sembra che ogni parola sia stata scelta tra un milione e assemblata con altre in una maniera molto precisa, che probabilmente pochi avrebbero scelto. Tutto questo, però, non è mai fine a se stesso. Era ben conscio del fatto che la sua scrittura poneva una sfida al lettore e, per lui, era molto importante che questa fosse ricompensata da un piacere, che può anche essere un dolore… insomma, la sensazione che ti porta a dire: “questa cosa l’ho pensata/provata/vissuta anch’io ma non l’avrei mai saputa descrivere così”. Per me leggere Wallace ha sempre avuto molto senso, la fatica che mi procurava era ricompensata dal fatto che il mondo che mi presentava lo riconoscevo come molto reale, molto umano. Wallace descrive bene il rapporto tra la forma moderna di consumismo e l’interiorità delle persone, il malessere delle società capitalistiche avanzate in cui le persone si sentono sole, frammentate, bombardate da un linguaggio non autentico, pubblicitario. Quasi nessuno come lui è riuscito in questo: a raccontarmi il mondo e come ci si sente a stare al mondo, in maniera non solo sociologica ma emozionante e commovente.
Gobetti: Forse la fatica è più sulla narrativa che sulla saggistica.
Testa: Grazie a dio alcune cose sono divertenti. Il pezzo sulla crociera, alcuni reportage. Ma i racconti sono veramente molto ostici. Mi ha dato estremamente fastidio il modo in cui è stato pubblicato in America il suo saggetto Questa è l’acqua, un discorso di incoraggiamento ai laureati in cui si trovano queste frasi che potrebbero sembrare delle banalità, delle uscite da guru; è stato pubblicato sotto forma di librettino in cui su ogni pagina c’è una frase, tutti aforismi. Wallace è diventato un po’ un santone. In realtà, queste sopravvalutazioni nuocciono sempre. Lui non aveva nessuna verità in tasca, tant’è vero che era una persona che soffriva di depressione ed è morta suicida.
Gobetti: Dicci qualcosa sulla traduzione.
Testa: La cosa su cui io lavoro di più è la comprensione del testo originario, perché quando traduco sto costruendo un dispositivo che trasmette in un’altra lingua il testo originario e non posso farlo se non ne capisco il 100 per cento. Poi potrò renderne il 70 per cento, però devo capire tutto quello che l’autore ha messo nella frase. Non solo il senso delle parole, ma anche i valori sonori, fonici, il ritmo della frase, il registro, se sono parole di uso frequente, colloquiali, o appartenenti a un registro aulico, perché l’autore non lascia nulla al caso. Nella scrittura di Wallace la fase della comprensione del testo è micidiale perché ci sono troppe parole che non conosci, supertecniche e gergali. Su qualunque cosa lui scrivesse c’era un lavoro di documentazione assurdo: sia che parli di tennis, di una fiera del bestiame, di come si cucina l’aragosta o di Wittgenstein, il suo lessico è sempre iperpreciso. La prima difficoltà, soprattutto nei primi anni in cui traducevo Wallace, era trovare il significato di tutte queste parole, anche del gergale, perché era bravissimo a riprodurre i modi del parlato, quelle espressioni che nel vocabolario non trovi. E nel 1999 usare internet aiutava fino a un certo punto, in rete c’era molto meno materiale di quanto ce ne sia ora. In più, lui ha tutta una serie di tic linguistici formati da parole, espressioni che vengono da una lingua familiare, che è solo sua. Per esempio, c’è quest’espressione to get/give the howling fantods che significa “spaventarsi a morte” e che usava solo sua madre, non è attestata, non si trova da nessuna parte.
Pubblico: In questo caso come si comporta?
Testa: Non sono una scrittrice e non sono particolarmente creativa linguisticamente. In quei casi non ho mai inventato dei neologismi. Per howling fantods potrei scrivere una cosa tipo “vedere i sorci verdi”, qualcosa di colorito, ma che fa parte della lingua media. Moltissime volte, traducendo Wallace, mi sono fatta aiutare per i linguaggi tecnici da giornalisti sportivi, matematici, ingegneri; per la lingua colloquiale invece mi sono spesso rivolta a persone madrelingua attraverso siti o mailing list.
Gobetti: Tu hai spesso contattato Wallace durante le tue traduzioni: come si rapportava con il traduttore?
Testa: La mia impressione è sempre stata che per Wallace la scrittura fosse un antidoto contro la solitudine perché, anche grazie ai suoi studi su Wittgenstein, pensava che ogni essere umano ha dei pensieri nella testa che sono solo suoi, e per comunicarli li trasforma in parole. Quando le parole raggiungono un’altra testa, come per miracolo, avviene una sorta di contatto fra i due cervelli. Questa attività di comunicazione avviene in maniera tanto più fruttuosa, quanto più il linguaggio è preciso, non approssimato, non paraculo, come può essere, principalmente, il linguaggio pubblicitario, del commercio, della politica. Se la vivi così capisco che tu possa provare una sensazione di perdita di controllo spaventosa se una persona che vive dall’altra parte del mondo, in un’altra lingua, decide di riscrivere i tuoi pensieri e non hai più nessun controllo sul linguaggio usato. Capisco che forse avrebbe preferito non essere tradotto.
Pubblico: Nel saggio Tradurre è il miglior modo di leggere un testo, Calvino sostiene appunto che il miglior modo di leggere un testo è quello di tradurlo e quindi il miglior modo di essere scrittori è farsi tradurre. Mettersi in contatto con un traduttore ti permette di misurare quanto le tue scelte linguistiche sono state davvero uniche, e quindi impossibili da rendere in un’altra lingua. Hai mai pensato di essere, in qualche modo, utile a Wallace o ad altri scrittori con cui hai avuto a che fare?
Testa: Diciamo che mi è capitato che nel sottoporre all’autore dei dubbi gli abbia poi fatto una sorta di editing. In qualche maniera gli fai apparire degli aspetti del suo testo a cui lui stesso non aveva pensato. In questo senso è vero che il lettore migliore che esiste è davvero il traduttore, che rilegge due, tre volte il testo molto lentamente, in modo profondo.
Pubblico: Come vi comportate nei confronti delle note di traduzione, di solito avvertite come una sconfitta del traduttore?
Gobetti: In Wallace questo è un problema stilistico, perché se Infinite Jest ha 364 note dell’autore, è chiaro che aggiungendone altre duecento diventa un po’ pesante.
Testa: Inizialmente, forse anche per la mia formazione di filologa classica, avevo una posizione molto filologica, per la quale il testo ha la T maiuscola, è sacro, quindi non dobbiamo toccarlo, e magari spiegare extratesto. Ora preferisco fare dei libri che la gente apprezza senza fermarsi, penso di più alla scorrevolezza. Per esempio, se un lettore italiano legge un riferimento al caschetto di Caterina Caselli, lo coglie, mentre un lettore straniero no: in quel caso, come editor, preferisco dire “aveva un caschetto biondo oro che sembrava finto” invece che metterci il nome della Caselli e spiegare in nota perché sia stato detto così. Certo, così tradisco il pensiero originario dell’autore ma lo tradisco e semplifico per facilitare la vita al lettore. Quando ho tradotto Wallace all’inizio del Duemila ho probabilmente messo più note di quante ne metterei adesso.
Pubblico: Si è molto discusso sulla traduzione di Infinite Jest. Cosa ne pensi?
Testa: La traduzione italiana di Infinite jest non l’ho letta, però nel Duemila ho partecipato alla lettura ad alta voce organizzata da Fandango. In quell’occasione feci una cosa di cui ora mi vergogno un po’: mentre il libro veniva letto in italiano, seguivo sul testo in inglese e dove mi sembrava che ci fossero degli errori li segnavo; quindi, mandai a Edoardo Nesi, che aveva firmato la traduzione, una letterina molto pedante, con una serie di osservazioni. Gli feci un po’ le pulci, cosa che lui però prese molto bene. Per quello che ho potuto sentire quindici anni fa, mi sembrava una traduzione molto ben fatta, anche se non perfetta; meriterebbe una revisione puntuale, ma non conosco un essere umano al quale augurerei di fare la revisione di questa roba.