I dolori e la gioia di un popolo smembrato
recensione di Franca Cavagnoli
dallo Speciale Estate 2017
Choman Hardi
LA CRUDELTÀ CI COLSE DI SORPRESA
a cura di Paola Splendore, con una nota di Hevi Dilara
pp. 97, € 10
Edizioni dell’asino, Roma 2017
disponibile su IBS
“Avvolgi la tua lingua tra stoffe di seta / ogni parola separata dall’altra / per non farle scontrare, graffiare. / Non dimenticare le parole che non usi mai, col passare degli anni i dettagli svaniscono / e potrai averne bisogno.” Questi versi della poetessa curda Choman Hardi dimostrano che dopo Auschwitz c’è più che mai bisogno di poesia: questo è ciò che rimane, perché la memoria è labile. Per chi ha vissuto i tormenti della Storia resta il ricordo, sempre che non venga rimosso. Ma per tutti gli altri? Eccellente è dunque la scelta delle Edizioni dell’asino, per inaugurare la nuova collana UP ideata da Goffredo Fofi e Nicola Villa, di affiancare ai primi due titoli – Esquilino di Nicola Lagioia e Il mio dopoguerra di Roberto Rossellini – questa bella antologia, La crudeltà ci colse di sorpresa, ben curata da Paola Splendore.
Senza la poesia, infatti, nulla ricorderemmo di quanto accadde tra il 23 febbraio e il 6 settembre 1988 ad Anfal, quando l’Iraq diede inizio al genocidio contro sei regioni del Kurdistan rurale e l’esercito iracheno rovesciò su 281 insediamenti gas tossici che all’inizio odoravano di mele dolci. Più di 2000 villaggi vennero distrutti, 182.000 civili persero la vita e finirono nelle fosse comuni, mentre un numero ancora più alto di persone fuggì. Cosa è rimasto di tutti loro? “Pettini, / rosari, specchi, carte d’identità, in un mucchio, a inzupparsi di pioggia”. È una testimonianza poetica in una lingua proibita, come ricorda Hevi Dilara nella sua palpitante nota in fondo al volume: poiché era vietato tramandare la storia del popolo curdo, la poesia si è appropriata di un ruolo fondamentale. Nel corso dell’ultimo secolo, infatti, la poesia d’autore curda è diventata, da genere elitario qual era, uno strumento per rivelare gli obiettivi, i dolori e la gioia di un popolo smembrato, ed è giunta a tutti trasformandosi in una potente arma indigena nella lotta per l’autodeterminazione, la libertà e la democrazia.
Nei versi di Choman Hardi si parla di sorgenti cementate, villaggi avvelenati e bambini sfigurati dalle armi chimiche. Ma si racconta pure la vita quotidiana del Kurdistan, di come odoravano di pane o di arance le mani di una madre e quanto era intenso il profumo dei primi narcisi. Il rimpianto è per un fratello che pende dal ramo di un albero, ma anche per la vite che si spandeva sul graticcio della veranda di una casa abbandonata. La storia di un popolo che si è cercato di cancellare è nascosta nei suoi versi.
F. Cavagnoli è scrittrice e traduttrice