Disobbedienza civile e non violenza nelle strade di Hong Kong
Intervista a Benny Tai di Santina Mobiglia
Benny Yiu-ting Tai, costituzionalista, insegna alla Hong Kong University, ed è stato uno dei protagonisti del movimento per la democrazia che ha occupato le strade di Hong Kong nell’autunno scorso. Lo abbiamo incontrato a Torino, in occasione della sua presenza a Biennale Democrazia il 29 marzo 2015.
Dal 1997, l’ex colonia britannica di Hong Kong è tornata sotto la sovranità della Cina, con uno statuto speciale che garantisce ampie autonomie in nome del principio “un paese, due sistemi”, oggetto però di interpretazioni diverse. La vasta mobilitazione recente, la cosiddetta Umbrella revolution, ha posto con forza la questione di una piena democrazia nell’autogoverno locale. Quali sono i principali punti della controversia con Pechino?
La versione cinese di “un paese, due sistemi” pone sempre “un paese” come premessa ai “due sistemi”. A Hong Kong, in quanto regione amministrativa speciale, è concessa una pratica dell’autonomia ma a condizione che non danneggi o minacci gli interessi delle autorità centrali, che di fatto sono anche quelli del Partito comunista cinese. E il Pcc ha una sua idea della democrazia, che è quella del centralismo democratico o della democrazia con caratteristiche cinesi. In breve, si possono fare le elezioni, ma le alte autorità devono sapere i risultati prima che si contino i voti.
La Basic Law, che è la nostra Costituzione, ha fissato i princìpi guida per il sistema elettorale di Hong Kong, con un calendario da cui pareva si potesse introdurre il suffragio universale nel 2007. Tuttavia Pechino valutò che i tempi non fossero maturi e fu rinviato fino al 2017. Con il sistema vigente, l’attuale capo del governo (Chief Executive) è stato eletto nel 2012 da un Comitato composto da 1200 membri espressi in larga parte su basi corporative o professionali da gruppi d’interesse, comunità religiose, organizzazioni politiche e sindacali, associazioni varie e altro ancora, con modalità che hanno coinvolto meno del 5 per cento dell’elettorato nel suo complesso. Ora che la scadenza del 2017 si avvicina, la proposta dei dirigenti cinesi, e al loro seguito del governo e delle forze pro-Pechino di Hong Kong, intende per “suffragio universale” l’elezione diretta da parte di tutti gli aventi diritto al voto, mantenendo però un comitato elettorale ristretto per la designazione dei candidati, non più di due o tre per la carica del Chief Executive. Con questo filtro, in un sistema politico che conferisce ampi poteri a questa figura, Pechino può sempre garantirsi l’elezione di persone affidabili. Su questo è esploso il movimento dei mesi scorsi. Le “procedure democratiche”, requisito della Basic Law per un governo legittimo, non possono essere ridotte al dominio di un’arbitraria maggioranza ignorando il diritto alla libera scelta dei candidati da parte dei cittadini, compreso il diritto alla rappresentanza delle minoranze.
Lei è stato il promotore, nel 2013, della campagna per il suffragio universale a Hong Kong e co-fondatore del movimento di disobbedienza civile Occupy Central with Love and Peace (Oclp). Qual è stato il suo ruolo nell’Umbrella Revolution?
Nel gennaio 2013 pubblicai un articolo in cui prefiguravo il ricorso alla disobbedienza civile qualora la riforma elettorale in corso non rispondesse agli standard internazionali del suffragio universale fissati dalla convenzione Onu del 1966 e ripresi nell’articolo 39 della Basic Law di Hong Kong. Ci fu un’ampia eco di consensi e a marzo, con il sociologo Chan Kin-man, professore alla Chinese University, e il reverendo Chu Yu-ming, pastore battista con una lunga militanza sociale, fondammo Oclp, che ha avuto un ruolo importante nella preparazione della protesta. È stato un ombrello sotto cui si sono raccolte la maggior parte delle forze democratiche di Hong Kong.
I nostri princìpi ispiratori si fondano sul modello della disobbedienza civile illustrata da Martin Luther King nella Lettera da una prigione di Birmingham e comportano forme di azione nonviolenta illegali ma con l’assunzione delle responsabilità personali di fronte alla legge di chi vi partecipa, fino a consegnarsi volontariamente alle autorità. Un altro presupposto costitutivo è il processo di democrazia deliberativa che deve precedere l’azione, definendone gli obiettivi. La democrazia ha molte dimensioni, e se il nostro scopo è quello di una democrazia elettorale più elevata anche il percorso di elaborazione della proposta deve essere coerente, coinvolgendo quante più persone in un confronto aperto a opinioni diverse e fornendo informazioni adeguate sulle possibili opzioni prima di arrivare alla decisione finale. A questo scopo abbiamo organizzato una serie di deliberation meetings: il 9 giugno 2013 (Dday 1) per stabilire l’agenda del movimento, con circa 700 partecipanti divisi in piccoli gruppi di 15 e il supporto di facilitatori del dialogo; tra ottobre 2013 e febbraio 2014 (Dday 2), più di trenta incontri organizzati con molti gruppi della società civile, comprese le minoranze etniche e i disabili, per raccogliere le proposte in merito ai principi di fondo delle modalità di elezione del capo del governo. Nella mia facoltà è stata organizzata una tavola rotonda con esperti internazionali e locali che ha prodotto dei princìpi guida sulla compatibilità dei meccanismi elettorali con gli standard della convenzione Onu. Da tutte quelle serie di incontri sono state delineate quindici proposte compatibili, poi discusse e votate il 6 maggio 2014 (Dday 3) da circa 2500 persone. Sulle tre che ottennero il maggiore consenso abbiamo organizzato un referendum aperto a tutta la cittadinanza cui parteciparono più di 790.000 persone, e la proposta che ottenne più voti venne formalmente presentata dall’Oclp al governo di Hong Kong. La modalità prescelta prevede tre modalità di candidatura alla carica di Chief Executive: da parte del comitato elettorale, dei partiti politici ma anche della società civile con la raccolta di un numero prescritto di firme di cittadini. Ed è proprio questa civil nomination che può garantire la presenza di candidati indipendenti dalla benedizione di Pechino.
Questo processo deliberativo doveva tradursi un’azione collettiva di disobbedienza civile nelle strade, che non prevedevamo certo di così vasta ampiezza e durata. Come Oclp avevamo programmato di occupare le strade principali di Central, il distretto finanziario di Hong Kong, il primo ottobre, festa nazionale per l’anniversario di nascita della Repubblica popolare cinese, pensando di resistere per qualche giorno in attesa di essere sgomberati dalla polizia. Ma gli studenti di Hong Kong, che avevano organizzato il boicottaggio delle lezioni dal 22 settembre, la mattina del 26 sfilavano di fronte alla sede del governo e alcuni di loro saltarono al di là di una cancellata in uno spazio chiuso al pubblico, mentre altre centinaia li sostenevano dall’esterno. La polizia cercò di disperderli con lo spray al peperoncino, ma non ci riuscì. Il giorno dopo c’era ancora più gente e ci unimmo anche noi di Oclp. Il 28 settembre la polizia circondò l’area per isolare i manifestanti. Arrivarono migliaia di persone bloccando le strade circostanti, dove un fitto lancio di lacrimogeni ha reso inarrestabile l’onda dell’occupazione che per 79 giorni ha mostrato un nuovo volto di Hong Kong. L’Umbrella revolution è cominciata così.
Una significativa peculiarità del movimento è stata la capacità di coniugare il suo radicalismo all’autodisciplina nel praticare forme di lotta nonviolente, oltre a dar prova di sensibilità ecologica e creatività. Segno di una nuova cultura politica tra i giovani?
È nata una nuova generazione di democratici, diversa da quelle precedenti che avevano sostenuto il movimento degli studenti cinesi nel 1989 finito nel sangue a Tiananmen o partecipato nel 2003 alla storica marcia di un milione di hongkonghesi contro le leggi nazionali sulla sicurezza. I giovani di oggi sono più determinati, resilienti, flessibili, pluralisti e innovativi. Lo stile della loro disobbedienza civile non è quello propugnato da Oclp. Preferiscono non stare passivamente seduti a terra in attesa di essere sgomberati o arrestati. Con “armi” difensive come pellicole di plastica, ombrelli alzati, maschere sanitarie e scudi di gomma stanno fermi a tenere ogni barricata sul fronte. Sono stati mobilitati dei membri delle triadi per attaccare gli occupanti a Mong kok, un quartiere commerciale molto animato. Ma gli studenti non si sono fatti spaventare e hanno resistito con fermezza senza reagire. Hanno trasformato le strade occupate in “villaggi” cosparsi di tende e opere d’arte creative, affidato i loro pensieri e sogni di democrazia a migliaia di post-it, introdotto uno stile di vita sostenibile nel “villaggio” costruendo una fattoria urbana e selezionando ogni genere di rifiuti solidi per il riciclaggio. Durante gli indimenticabili 79 giorni il movimento è diventato qualcosa di molto diverso dal nostro piano originario. Un esito sanguinoso era l’incubo di molti, soprattutto tra chi era abbastanza vecchio da ricordare quel che era successo a Tiananmen. Ma se la direttiva di Pechino era “niente sangue, niente concessioni”, le opzioni per il governo erano poche, e alla fine ha dovuto ricorrere a una denuncia presentata da taxisti e trasportatori per sgomberare le strade.
Quali prospettive per il futuro?
La fine dell’occupazione non è la fine del movimento, che segna una pietra miliare nello sviluppo democratico di Hong Kong. Diciamo che dopo l’Umbrella Movement entriamo nell’Umbrella Era, con una cultura sociale e politica rinnovata. Si tratta di andare oltre il tradizionale rapporto gerarchico tra leader e base per riorganizzare una struttura orizzontale, a rete, radicata nei diversi contesti sociali sul territorio, stipulando un doppio patto: di adesione personale ai princìpi di una resistenza civile nello spirito della nonviolenza, e di accettazione collettiva dei processi di democrazia deliberativa per elaborare le proposte. Ci sono tendenze diverse nel movimento, con un’ala radicale tentata dal ricorso alla violenza, che può anche avere una funzione di stimolo o di pressione sul governo, ma rischia di disperdere l’ampio consenso raggiunto durante l’occupazione, alla quale si calcola abbiano partecipato in varie forme circa 1.200.000 pesone su 7 milioni di abitanti. In ogni movimento si alternano momenti di azione diretta e indiretta. Oggi penso debba prevalere il secondo tipo. Penso ad azioni informative, mostre, performance di strada, distintivi da indossare, ma anche alla creazione di istituzioni parallele, come un governo-ombra o referendum consultivi, in attesa che maturino i programmi e i tempi di una nuova azione diretta. Nel futuro del movimento democratico di Hong Kong, l’obiettivo di un equo sistema elettorale è cruciale, ma non è che la premessa per affrontare le profonde contraddizioni sociali irrisolte: l’allargarsi del divario tra ricchi e poveri, il declino della mobilità sociale, l’aumento dei prezzi degli immobili, il prevalere degli interessi costituiti nel sistema di governo e la crescente sfiducia all’interno della comunità e nei confronti della Cina.
Quando sarà il nuovo momento di passare all’azione? Difficile da prevedere. Molto dipende dagli sviluppi in Cina, dove le basi del potere sono scosse dai grandi cambiamenti portati dai processi di modernizzazione. Tra gli esperti, c’è chi pensa che il regime stia giocando il suo finale di partita, mentre altri ritengono abbia sviluppato ramificate metodologie per far fronte al crescente disagio sociale, anche se lo strumento prevalente è sempre il comprare la stabilità in cambio di concessioni materiali. Ma un regime autoritario resta vulnerabile. Al di là delle divergenze sul come e il quando, c’è un consenso generale sul fatto che grossi cambiamenti arriveranno, e si porrà anche la questione di una riforma politica. Se ci fosse lungimiranza, quale terreno migliore di Hong Kong per sperimentare una vera riforma politica ed elettorale? Voglio continuare a essere ottimista.