La vertigine di quella altura
di Bianca Maria Paladino
Generoso Picone
Paesaggio con rovine
pp. 222, € 18
Mondadori, Milano, 2020
Il terremoto in Irpinia ha compiuto, il 23 novembre 2020, quarant’anni. Come in tutti gli anniversari, specie se tragici, si è compiuto il rito della memoria con articoli di giornali, documentari, registrazioni, spettacoli e naturalmente libri. Abbiamo scelto di parlare di questo volume perché va oltre la memoria e costituisce una riflessione più profonda su ciò che ne è dei luoghi del cratere oggi; si propone inoltre di affrontare la responsabilità soggettiva e collettiva del mancato salto verso il miraggio del progresso che ci si attendeva. Come nel famoso quadro di Friedrich, Il viandante sul mare di nebbia, un uomo di spalle che osserva l’abisso tra le montagne, l’autore guarda il paesaggio sottostante dall’alto della collina della Sella di Conza (697 mt), esattamente il punto in cui ad una profondità di dieci chilometri si mise in movimento una faglia lunga sessantamila metri e larga quindicimila che in novanta secondi, quel 23 novembre del 1980, fece slittare il territorio del centro-sud Italia verso il Tirreno e l’Adriatico.
Esito di quell’evento geologico: 2914 morti, 8848 feriti, 280.000 sfollati. La vertigine di quella altura crea nell’osservatore la percezione del tempo puro, di ricongiunzione delle epoche espresso dall’immagine delle rovine, dal loro significato e da qui il discorso si allarga al presente: dal ricordo delle bare di Laviano tra le macerie degli edifici a quelle di Bergamo trasportate dai camion militari. Ora come allora la riduzione della morte ad una cifra anonima ci rende consapevoli del fatto che abbiamo smarrito la pietas della perdita, e persino della possibile perdita, come dimostra il mancato rispetto delle norme a tutela della salute degli altri in questi ultimi mesi. È il fio che paghiamo all’oblio per poter andare avanti, ma a che prezzo? E se alle prime pagine del testo aderiamo emotivamente per il neoromanticismo che scaturisce dallo Sturm und Drang che ci coinvolge tutti, perché il terremoto come il virus ci induce ad un solitario dialogo con la natura, poi prevale l’attenzione all’ordine del ragionamento, all’autobiografia dell’uomo, giornalista di una testata del sud importante, “Il Mattino”; impegnato negli anni passati nel governo della politica della città capoluogo dell’Irpinia; intellettuale che molte iniziative ha sostenuto e prodotto in Irpinia e non solo. Picone si inserisce nella scia della disillusione di storici intellettuali del Sud come De Sanctis, Dorso, De Martino, Rossi-Doria e lo confessa “Mi accorgo che la mia scrittura nasce da un risentimento. Perché (l’Irpinia) ha mancato la grande e, per molti versi, irripetibile occasione di cominciare e non ricominciare, di costruirsi e non ricostruirsi, di darsi un nuovo inizio…?”.
Da qui parte la ricostruzione storica degli anni dal gennaio 1980 ad oggi attraverso linee parallele e convergenti: i fatti, i libri, le manifestazioni sociali e culturali, il lavoro (tra agricoltura, industria e terziario), la politica, cioè la storia italiana viene filtrata attraverso il paesaggio irpino, mutato radicalmente dalla ricostruzione eppure desertificato da nuove forme di emigrazione. Una terra misteriosa questa, un buco della serratura da cui osservare l’intero Paese. E tuttavia la domanda “perché non si è fatto altro” impone la costruzione di “un’autobiografia del terremoto” che va rivolta non solo a se stessi ma va estesa a quelli che sono rimasti qui ed è forse l’antidoto alla schizofrenia identitaria che infetta chi ha scelto di restare “struggendosi nello sforzo di dare significato alla propria vita, interrogandosi almeno una volta sul senso da attribuire allo spazio e al tempo in cui si è nati”. “Bisogna farci i conti” con questa realtà residua perché il pianto rituale si traduca in “non morire con ciò che muore” e generare l’energia creativa.
La testimonianza che di quel vasto dramma resero intellettuali di ogni provenienza: Moravia, Soldati, Volponi, Sciascia; Nono, Berio, Abbado, Canino, Pollini; Proietti, Gassman, Fo e Cirino; Beuys, Warhol, Amelio eccetera fino a Dragone e Capossela degli ultimi anni non è riuscita ad accendere un fuoco attivo che orizzontalmente legasse tutti gli irpini a dare corpo alla nobile storia del territorio ed alla forza intensa di quel paesaggio che meritava più rispetto e maggior tutela di bene comune. Tralasciamo qui le inchieste e gli abusi di cui pure ci parla Picone, ma la questione vera è la sudditanza indotta dalla politica ai cittadini con finanziamenti per un terremoto infinito, che ha coltivato voti e consensi con forme di assistenzialismo a cui l’amministrazione non ha offerto risposte e che ha fiaccato ogni rivendicazione di diritti civili. Dunque “vittime del destino? Vittime di se stessi…Non è sopportabile pensare di non essere ciò che si fa… è un paradigma che può dare la momentanea sensazione dell’autoassoluzione di fronte all’ingovernabile fato, ma non consente di cogliere la verità che queste terre denunciano: se un credito c’è, non è di passato ma di futuro”. Un libro necessario perché pone interrogativi etici a chi ha vissuto in questi luoghi e tempi, ma anche a chi lo stesso dramma lo ha vissuto altrove.
B. M. Paladino è studiosa dell’industria culturale