Emergenze e salute planetaria. Intervista a Paolo Vineis

Un continuum da uno fino a zero

Intervista a Paolo Vineis di Santina Mobiglia

Il titolo del vostro ultimo libro è Prevenire (Paolo Vineis, Luca Carra, Roberto Cingolani, Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica, pp.136, € 15, Einaudi, Torino 2020), perché come sostenete, solo la prevenzione può salvarci. Solo soluzioni globali, preventive e lungimiranti…” Quali lezioni trarne nell’immediato e per il futuro?

C’è una propensione, nell’atteggiamento che ha dominato finora nell’affrontare i problemi della salute delle popolazioni, ad arrivare molto a valle delle cause che li hanno provocati. Questo è un problema generale delle tecnologie e dello stesso sistema produttivo. È una interpretazione lineare, secondo cui la scienza e la tecnologia propongono nuove soluzioni o invenzioni (nel neolitico l’agricoltura) che vengono o meno adottate dal sistema sociale e produttivo (oggi diciamo dal mercato), secondo un meccanismo di selezione che assomiglia a quello darwiniano. A quel punto la tecnologia si diffonde e inevitabilmente ha un impatto sulla società ed effetti collaterali positivi e negativi. Pensiamo alla chimica (inclusa la plastica), all’automobile (incidenti stradali, inquinamento), ai nuovi mezzi di comunicazione di massa, ecc. Ciascuna di queste tecnologie ha un impatto a valle che non viene mai contabilizzato nel momento della pianificazione e del trasferimento. Sono le cosiddette diseconomie esterne. Si pensi che la produzione di un bene dannoso come le sigarette dà origine a 4,5 milioni di tonnellate di gas serra, da parte della sola Philip Morris, l’unica ditta per cui abbiamo i dati. A prescindere da questo esempio di un bene non strettamente necessario, è importante capire che le tecnologie spesso rispondono in modo estremamente ingegnoso ai problemi che ci affliggono: pensiamo ai vaccini e agli antibiotici, o agli sviluppi delle tecniche chirurgiche. Ma non possiamo più adottare l’abituale logica lineare che si accorge magari dopo decenni degli effetti collaterali imprevisti di alcune tecnologie (sia chiaro che non mi riferisco ai vaccini). L’impatto a valle va incorporato nella stessa progettazione. In effetti solo adesso, grazie al lavoro di Rockström e dello Stockholm Resilience Centre, ci rendiamo conto che alcuni effetti sul pianeta potrebbero diventare irreversibili. Per questo è importante adottare non solo un’economia circolare (come prevede anche il Green New Deal), ma anche una progettazione circolare a partire dalle prime fasi della progettazione tecnologica.

Il libro è anche un manifesto che richiama l’urgenza di una politica per l’ecosistema basata su prove scientifiche e soluzioni tecniche rispetto alle patologie dell’intero pianeta gravato da un triplo debito: ambientale, socioeconomico, cognitivo. Tutti strettamente intrecciati fra loro e con una precisa incidenza sulla salute planetaria, che anche per la specie umana non dipende solo dalla qualità delle cure mediche. Ne è un esempio il caso specifico del coronavirus, che ha compiuto proprio uno dei possibili salti di specie di cui parlate, favoriti dalla crescita di grandi conurbazioni ai bordi delle foreste. Come affrontare queste interazioni patologiche?

Se guardiamo all’attuale emergenza, ci accorgiamo che molte discipline hanno finora lavorato in modo separato, penso per esempio all’epidemiologia e all’ecologia. L’epidemiologia si è interessata soprattutto dei fattori di rischio che chiamiamo prossimali, come il colesterolo (con la famosissima indagine di Framingham degli anni cinquanta) o la ricerca immunologica in risposta alle infezioni; mentre l’ecologia si è occupata dell’habitat delle specie o della perdita della biodiversità. Ma ora questi argomenti apparentemente lontani devono confluire. Due esempi: il mio ex collaboratore Kris Murray (ora in Gambia) ha studiato l’ecologia delle infezioni umane trasmesse da animali (zoonosi) e ha scoperto il ruolo centrale della biodiversità e del rapporto tra l’espansione delle società umane (urbanizzazione, deforestazione) e rischio di epidemie. Oggi si sta capendo il ruolo importante che hanno la deforestazione, l’urbanizzazione ma anche gli allevamenti e le pratiche agricole nell’origine di molte malattie infettive umane. Il rapporto tra uomini e natura si è sviluppato nell’arco di secoli sotto forma di coevoluzione con le specie vegetali e con altre specie animali. Oggi l’intero sistema del pianeta è sottoposto a una pressione che ne mette in discussione gli equilibri raggiunti.

Tutte queste emergenze di portata planetaria, dal riscaldamento globale al virus che ignora i confini, richiederebbero un “internazionalismo” consapevole e attivo. Come arrivare a soluzioni globali in un’epoca di crescenti nazionalismi e sovranismi?

L’epidemia è la migliore dimostrazione del fatto che chiudersi nei confini non ha molto senso. Ma non è il solo esempio. Anche il cambiamento climatico o il superamento dei “confini planetari” (per esempio i cicli dell’azoto e del fosforo) sono problemi globali che richiedono soluzioni globali, come la resistenza agli antibiotici (l’esempio del nostro libro). I peggiori nemici della reazione alla crisi planetaria sono proprio i nazionalismi e i sovranismi. Temo che l’unica via per uscire dalla crisi sia creare una sensibilità e una cultura ambientali che in tempi non troppo lunghi convincano che abbiamo bisogno di autorità internazionali forti e credibili. Mi sembra che la crisi Covid-19 possa portare le opinioni pubbliche a muoversi in entrambe le direzioni: da un lato forse ci si è (nuovamente) resi conto dell’importanza che ha un’istituzione come l’Organizzazione mondiale della sanità nel diffondere linee-guida (a fronte delle incertezze e incoerenze della politica, con l’eccezione tutto sommato del governo italiano); dall’altro però, se la crisi perdura e diventa crisi socioeconomica globale, può scatenare di nuovo reazioni populiste e disgregatrici.

Abbiamo imparato ad apprezzare, nell’imperversare del coronavirus, la capacità di medici e scienziati di dare informazioni argomentate (non così frequenti in altri ambiti della comunicazione pubblica), distinguendo fra certezze e congetture. Quasi tutti i governi alla fine dicono di basarsi sulle raccomandazioni degli scienziati: un esempio di rapporto virtuoso tra le due parti? Come valuta, più in generale, la qualità dell’informazione nell’attuale emergenza?

Vorrei menzionare qui il ruolo positivo di voci come “Scienza in rete”, che ha consentito la diffusione di informazioni attendibili su canali diversi da quelli tradizionali della stampa. La stampa e altri media, pur essenziali, spesso non fanno un buon servizio. Idealmente, nelle decisioni politiche, si dovrebbe immaginare una catena di trasmissione di informazioni che consiste nel trasferire le migliori prove scientifiche nella pratica, come diceva anni fa la Collaborazione Cochrane del compianto Alessandro Liberati. Questa operazione ha avuto un certo successo nella medicina clinica, nel senso che ha cercato di opporsi ai conflitti di interesse e alla confusione dei messaggi tramite la facilitazione del trasferimento delle migliori conoscenze scientifiche. Bisognerebbe fare lo stesso anche in altri campi in cui le prove prodotte dalla scienza sono cruciali per le decisioni politiche. Un buon trasferimento della prova implica migliori decisioni politiche, più comprensibili da parte dei cittadini, e dunque anche un migliore livello della discussione pubblica.

Come si procede oggi all’interno della comunità scientifica nell’elaborazione di modelli epidemiologici predittivi? Fino a che punto esistono dati comparabili e criteri convergenti per misurarne l’efficacia?

Anche questo fa parte del “trasferimento delle prove nella pratica”. I risultati della scienza sono distribuiti secondo un continuum che va da uno (una confidenza molto alta nelle prove: per esempio, il vaccino contro il morbillo funziona, o il fumo nuoce alla salute) fino a zero (le fake news). In questo continuum si colloca la grande maggioranza delle prove scientifiche, caratterizzate da un certo grado di incertezza. È proprio questo che è difficile trasmettere nel dibattito pubblico. Quando alcuni di noi hanno cercato di dire che la previsione del picco dell’epidemia in Lombardia era difficile a causa della natura probabilistica delle inferenze e a causa delle assunzioni dei modelli matematici, spesso sono stati travisati nei titoli semplificatori dei giornali. Non abbiamo ancora imparato a tradurre l’incertezza in un titolo che non sia “gli scienziati litigano”: la realtà è che il dissenso è naturale e salutare nella scienza, e le osservazioni si prestano spesso a diverse interpretazioni. Consideriamo il tasso di letalità degli infetti, che presuppone stime plausibili sul numero effettivo di contagiati, elaborate ad esempio dal team di Ferguson all’Imperial College con il metodo della back-calculation a partire dalla mortalità osservata. Risulta per l’Italia l’ipotesi credibile di circa 38.000 morti evitate dalle misure di contenimento messe in atto dal governo, ma con un ampio intervallo di credibilità (13.000-84.000). Per il futuro immediato, si tratterà di valutare l’impatto del graduale allentamento delle misure sull’evoluzione dell’epidemia. Ma si tratta di un virus nuovo e la storia naturale dell’infezione è ignota. Ritengo preferibile, per una stima approssimativa dei protetti, un’indagine campionaria sulla popolazione con un test anticorpale, che rileva l’avvenuta risposta immunitaria (di durata ancora incerta). Si noti che i test con tamponi si limitano a registrare l’infezione in corso. Per gli anticorpi è importante disporre di un test accurato che funga da “gold standard” rispetto ai test commerciali. Altrettanto urgente, per la ricerca epidemiologica e clinica, l’immediata accessibilità per la comunità scientifica di tutti i dati disponibili per l’Italia.

p.vineis@imperial.ac.uk

P. Vineis insegna epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra ed è vicepresidente dell’Istituto Superiore di Sanità