Un pugnale conficcato nella carne
articolo di Alberto Casadei
dal numero di febbraio 2000
Testimoniare le vicende anche più atroci senza appiattirle: questo è il primo merito di Vasilij Grossman come giornalista e romanziere della seconda guerra mondiale. La recente traduzione della raccolta Anni di guerra fa conoscere aspetti della sua opera poco noti in Italia, ed è opportuno sottolineare subito quelli che riguardano il versante letterario e stilistico. Negli articoli scritti dal fronte russo-tedesco nel 1942-44, benché si senta spesso una retorica di matrice ideologico (cui l’autore allora non poteva, né voleva, sottrarsi), sono tuttavia già chiare le prerogative del grande narratore, specie quando vengono descritte le realtà familiari e civili distrutte dalla violenza brutale del nazismo. E, al di là delle condanne morali (frequenti e incisive: “i nazisti rappresentavano la più grande menzogna della vita”), risultano soprattutto interessanti i passi in cui il valore dei singoli soldati o delle persone comuni viene motivato raccontando, magari in poche frasi, le loro biografie, quasi sempre segnate da lutti causati dalla guerra.
Brani vigorosi si leggono in specie nelle corrispondenze da Stalingrado, in cui Grossman, mentre presenta atti di eroismo da parte dei giovani sovietici, trova modo di narrare la condizione dell’intera città durante la guerra, che viene paragonata a “un pugnale profondamente conficcato nella carne”. Del resto, anche nel lungo reportage su L’inferno di Treblinka, scritto nell’autunno del 1944, dietro la denuncia degli orrori, condotta in tono inquisitorio e di profondo sdegno, si coglie una nota di spontanea e non ideologica compassione per il destino delle vite sommerse. Grossman si interessò particolarmente alla situazione degli ebrei sin dal racconto II vecchio maestro (presente nel volume), del 1942, e nel dopoguerra, come si sa, coordinò con Ilya Ehrenburg la commissione incaricata di studiare i crimini antisemiti, che produsse il famoso Libro nero. Ma la nuova fase di repressione contro la popolazione ebraica in Urss, avviata da Stalin nel 1948, fece progressivamente perdere a Grossman quella fiducia nel regime ancora testimoniata nella prima parte del suo grande romanzo su Stalingrado, uscita nel 1952 e intitolata Per una giusta causa (di cui purtroppo manca una traduzione italiana).
L’ebreo Grossman venne perseguitato, e solo nel 1962 pensò di scrivere la seconda parte del romanzo, dal titolo Vita e destino, poi sequestrata e pubblicata fortunosamente nel 1984. Il valore assoluto di quest’opera non viene più messo in discussione, tanto da essere talora paragonato a Guerra e pace, in effetti suo modello esplicito. In Vita e destino c’è spazio per la rappresentazione della vita quotidiana nella guerra, per le descrizioni crude di ciò che resta dopo una lotta, per le riflessioni morali, i dialoghi ideologici e le sentenze di carattere gnomico, che inseriscono i fatti in una dimensione che potremmo definire di filosofia della storia. Vi si leggono anche frasi nette, riguardanti i minuti fatidici della battaglia di Stalingrado, interpretata ora come lo scontro del popolo russo e dei suoi nemici tedeschi accomunati nella distruzione voluta dai loro regimi, dato che l’equivalenza tra nazismo e stalinismo è una costante ideologica dell’opera (e sarà poi ripresa nel racconto sui gulag dal titolo Tutto scorre…, scritto poco prima della morte, avvenuta nel 1964). Non mancano pagine di grande penetrazione psicologica, come quelle dedicate alla visita di Ljudmila Nikolaevna Saposnikov alla tomba del figlio Tolja, combattente al fronte, o quelle relative alla morte di un gruppo di ebrei in una camera a gas.
Soprattutto, si trovano passi grandiosi riguardanti la battaglia, che appare come un evento terribile e assurdo, circondato dal silenzio perenne della storia: “Il silenzio regnava compatto e incontrastato e al mondo sembrava non ci fosse né steppa, né nebbia, né Volga, ma solo perfetto silenzio. Tra le nuvole cupe guizzò veloce un lampo, quindi la nebbia grigia si fece purpurea e d’un tratto i tuoni invasero cielo e terra. I cannoni vicini e lontani confondevano le loro voci, l’eco preconizzava il legame, dilatava il polifonico intreccio dei suoni che riempivano tutto il gigantesco contenitore di spazio su cui si dispiegava la battaglia”. La seconda guerra mondiale costituisce la prova della verità tanto per i singoli individui, quanto per interi sistemi politici e ideologici: così, il romanzo non si limita a definire lo spazio degli eroi, ma si amplia a delineare le colpe dei responsabili della lotta.
Per tutto questo, Vita e destino si presenta come un’opera di grande portata, confrontabile con quelle di Pasternak e di Solzenicyn: nella cultura russa, sempre legata ai suoi modelli ottocenteschi, il romanzo realistico poteva ancora essere impiegato per una rappresentazione epica. Nel secondo Novecento, invece, la crisi del romanzo classico era fortissima nelle letterature occidentali, e per riuscire a raccontare gli eventi eccezionali della più grande guerra di ogni tempo occorrevano nuove elaborazioni, che interpretassero forme narrative tradizionali (come appunto l’epica antica) connotandole con valori e sensi inconsueti. E ciò che fanno opere – pur diversissime – quali il Doktor Faustus di Thomas Mann, Il Partigiano ]ohnny di Beppe Fenoglio e La Bataille de Pharsale di Claude Simon: se analizzate attentamente, potrebbero fornire la base per costruire un canone, valido non solo per i romanzi sulla guerra.
Lasciando ad altra sede la discussione di questo punto, è ancora opportuno sottolineare che le vicende della Seconda guerra mondiale continuano a costituire un tema importante per parecchi romanzieri. A parte le numerosissime opere anche narrative dedicate all’Olocausto, sono molte quelle riguardanti le conseguenze dirette o indirette del conflitto, specie per le popolazioni che più di altre sono state parte in causa. Si potrebbe ad esempio citare II morbo Kitahara di Christoph Ransmayr. La storia è ambientata in un paesino austriaco, Moor, la cui vita è indelebilmente segnata dalle vicende belliche, peraltro raccontate senza riferimenti storici precisi. L’intersezione tra il tempo fantastico (o meglio: real-meraviglioso) del romanzo e le allusioni alla violenza della guerra crea una sorta di cortocircuito, cosicché la narrazione sembra non riguardare più soltanto l’Europa distrutta e la sua faticosa rinascita, bensì ogni paese sconvolto da lotte.
Notevole è poi The Tunnel (1995) di William H. Gass (per ora non tradotto), il cui protagonista, William Frederick Kohler, è uno studioso che ha scritto un saggio su Guilt and Innocence in Hitler’s Germany, invece di ultimarlo con un’introduzione, però, comincia a raccontare, in un monologo decisamente postmoderno che molto deve a Sterne, la propria vita e il proprio rapporto con la seconda guerra mondiale, qui vista come un avvenimento già storico, ma di una storia per nulla staccata dal presente (e lo stesso vale per La memoria della foresta, opera unica di Charles T. Powers, ambientata nella Polonia della fine degli anni ottanta). Del tutto diverso il caso di David Guterson e del suo La neve cade sui cedri. Questo romanzo si basa su una solida struttura, molto ottocentesca, e mira ad approfondire i rapporti psicologici tra i personaggi, sullo sfondo della lotta nippo-americana dopo il 1942. Elementi giallistici e intrecci amorosi sono adattati, con eleganza stilistica, a reinterpretare il destino di morte che la guerra introduce nella vita di ogni giorno.
Insomma, narrare ancora la seconda guerra mondiale può costituire una sfida conoscitiva, che porta, nei casi migliori, a un realismo non banalizzato e diverso da quello di pur importanti film, come Salvate il soldato Ryan di Spielberg o La sottile linea rossa di Malick. Ecco perché attraverso i grandi romanzi che continuano a parlare di quel conflitto comprendiamo sempre più quanto esso ha condizionato, soprattutto sul versante etico, il nostro modo di pensare gli estremi.