di Alfredo Paternoster
Margaret A. Boden
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
ed. orig. 2016, pp. 186, € 16,
il Mulino, Bologna 2019
Remo Pareschi e Stefano Dalla Palma
INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Viaggio tra le macchine pensanti che cambieranno il nostro futuro
pp. 143, € 17,
Hachette fascicoli, Milano 2019
Questi due saggi sono davvero benvenuti, perché il panorama odierno dell’intelligenza artificiale (IA) è straordinariamente ricco ed eterogeneo. A differenza di quanto avveniva negli anni sessanta-settanta del Novecento, dominati dall’IA simbolica (il cui assunto è che pensare è manipolare simboli sulla base di regole), oggi chi dicesse che si occupa di IA non avrebbe dato un’idea precisa di quello che fa: apprendimento automatico (machine e deep learning), IA evolutiva (ad es. gli algoritmi genetici), robotica di sciame, oltre alla tutt’altro che tramontata “buona vecchia” IA simbolica – e l’elenco non è completo – sono modelli di intelligenza molto diversi. Come non mancano di far notare gli autori di ambedue i volumi, non c’è una IA, non solo nel senso della pluralità di strumenti modellistici, ma nel più importante senso che non c’è una visione di che cos’è l’intelligenza. Entrambi i testi si propongono di offrire un’introduzione semplice, fruibile anche dai non addetti ai lavori. L’obiettivo è raggiunto in modi diversi: più sistematico, completo e filosoficamente denso il libro di Boden; più tematico, aneddotico e capace di strizzare l’occhio al lettore quello di Pareschi e Dalla Palma. Beninteso, per quanto introduttivi i due testi richiedono al lettore un certo impegno, perché la complessità intrinseca della materia non ammette improbabili scorciatoie. Dopotutto, quale che sia il modello di compito intelligente adottato, si tratta comunque di strumenti matematici di una certa complessità.
La moltiplicazione dei modelli e i notevoli risultati conseguiti in ambiti quali il riconoscimento di volti, l’apprendimento automatico e i giochi di strategia non hanno tuttavia rivoluzionato il dibattito sulle questioni di fondo sollevate dall’IA. Gli ostacoli più grandi che si frappongono al tentativo di riprodurre le capacità e i processi alla base della nostra esecuzione di compiti intelligenti restano gli stessi. Il caso del linguaggio, ampiamente discusso in entrambi i volumi, è paradigmatico. Ci sono sistemi, si pensi in particolare a quelli di traduzione automatica, capaci di prestazioni notevolissime, ma nessuno pensa che essi incarnino comprensione autentica. Il motivo è che il loro modo di procedere, basato su analisi statistiche di enormi raccolte (i corpora) di testi, ha poco o nulla a che vedere con i nostri processi di comprensione. Generalizzando ad altri ambiti, il giudizio dominante è che i risultati più impressionanti vengono conseguiti con la “forza bruta”, cioè con la potenza di calcolo e lo sfruttamento di enormi quantità di dati, mentre noi non facciamo così. Beninteso, un sistema capace di grandi prestazioni in un certo ambito è in un certo senso intelligente (non dobbiamo per forza assumere l’intelligenza umana come paradigma unico dell’intelligenza), ma la sua incapacità di essere performante in altri ambiti fa legittimamente sollevare molti dubbi sulle sue doti intellettive (sebbene questo possa ancora essere un riflesso di una forma di sciovinismo antropologico). Infatti Boden inquadra il problema nei termini di un’incapacità, allo stato attuale, di riprodurre l’intelligenza generale: è questa la grande sfida che l’IA non è ancora in grado di sostenere. Boden dà in tal modo per scontato che gli esseri umani abbiano un’intelligenza generale. Sebbene alcuni ritengano che la nostra intelligenza sia invece la somma di “processori” di informazione altamente specifici, è indubbio che l’assunzione di Boden sia largamente condivisa. Così come è diffusa l’idea che l’intelligenza generale richieda la coscienza. La riluttanza ad attribuire autentica intelligenza agli artefatti sarà molto probabilmente vinta solo quando ci sarà un artefatto a cui importi qualcosa di quello che fa, un artefatto che sia autenticamente dispiaciuto o felice per qualcosa. Ciò a sua volta sembra richiedere sentience, la facoltà della sensibilità, a cominciare dalle sensazioni basilari, indiscutibili anche quando vaghe: benessere vs. malessere. Per quanto posso vedere, non abbiamo la minima idea di come si potrebbe realizzare questo aspetto in un artefatto non biologico. Chi lavora sulla coscienza artificiale tenta di riprodurre funzioni di automonitoraggio e osserva, per così dire da spettatore, se a un certo punto “salta fuori” un comportamento che potrebbe indurci a credere che l’artefatto abbia sensazioni, senza ricorrere a trucchi, cioè a simulazioni di comportamenti di questo tipo.
Le questioni più stimolanti nonché inquietanti sollevate dall’IA sono, credo, la possibile scomparsa del lavoro umano e la possibile rivolta delle macchine nei confronti dell’uomo, o anche solo il loro divenire amichevolmente autonome nei comportamenti. Entrambi i punti sono discussi nell’ultimo capitolo del libro di Boden. Sul primo punto l’autrice non si sofferma più di tanto, esprimendo un cauto pessimismo – d’altra parte per questo genere di previsioni sono verosimilmente più attrezzati gli economisti che gli specialisti di IA o di scienze della mente. Sul secondo punto Boden è molto scettica, spiegando con grande chiarezza e dovizia di argomenti perché siamo ancora molto lontani dall’avere macchine dotate di quel grado di autonomia che potrebbe indurci alla preoccupazione. Nessuna apocalisse!
alfredo.paternoster@unibg.it
A. Paternoster insegna filosofia del linguaggio all’Università di Bergamo