Reazione di classe e mobilitazione di massa
recensione di Claudio Natoli
dal numero di ottobre 2018
Paul Corner
LA DITTATURA FASCISTA
Consenso e controllo durante il Ventennio
pp. 201, € 19
Carocci, Roma 2018
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Il volume costituisce un approfondimento di tematiche a lungo assiduamente frequentate dall’autore. Al centro dell’attenzione si sono collocati non tanto gli elementi di “autorappresentazione” cari alla “storia culturale”, bensì gli strumenti di coercizione e di condizionamento dello stato fascista, e soprattutto l’impatto che le pretese totalitarie del regime hanno esercitato sulla vita quotidiana, sulla mentalità e sui comportamenti della popolazione.
Corner è uno dei non molti studiosi che in Italia si sono confrontati con quelle più affinate metodologie di ricerca che, in riferimento alla Germania nazista, si sono emancipate dalla cappa soffocante della teoria del totalitarismo così come è stata declinata negli anni cinquanta dagli studiosi di fede occidentale (anche a dispetto degli orientamenti di Arendt). Il punto di differenziazione è stato il superamento del luogo comune di una società totalmente passiva e soffocata dall’oppressione del regime, oppure, secondo la visione defeliciana, permeata da un consenso generalizzato, priva di tensioni e di conflitti: e questo sulla base di un approccio fondato non più sul dominio, bensì sull’interazione tra stato e società e quindi capace di individuarne i tratti di soggetti autonomi e i reciproci rapporti. Ciò ha permesso di analizzare la vasta gamma di comportamenti che nel vivo della società segnarono la vita quotidiana dei regimi fascisti e che sfuggono all’antitesi dicotomica tra consenso e opposizione politica. In questa luce un peso determinante acquistano da una parte la repressione selettiva e i molteplici condizionamenti per l’acquisizione delle provvidenze assistenziali e delle gratificazioni individuali, dall’altra l’ineluttabilità, in assenza di una prevedibile crisi politica dissolutrice, di meccanismi di adattamento. Ma proprio questi ultimi possono implicare conformismo e sottomissione, ma anche coesistere con comportamenti di resistenza individuale e di gruppo, di opposizione parziale o di non conformità nella sfera grigia ai limiti della legalità fascista.
Corner rileva come questi fenomeni abbiano tratto origine da una contraddizione che il regime fascista non fu mai in grado di risolvere: e cioè l’enorme divario tra eclatanti promesse ed effettive realizzazioni, il che ne determinò la delegittimazione e il fallimento presso larghi strati della popolazione già alla fine degli anni trenta. Il fascismo si era del resto proposto alle élite tradizionali del potere (agrari, industriali, monarchia, vertici burocratici e militari) come la soluzione dei problemi strutturali del capitalismo italiano, emersi già prima del 1914, e cioè l’incapacità di allargare le basi di massa dello stato liberale alle classi lavoratrici e di riassorbire per questa via la conflittualità politica e sociale. La Grande guerra aveva costituito un primo laboratorio per una svolta autoritaria attraverso una politica estera espansionistica, un rapporto privilegiato tra lo stato e le centrali del potere economico e infine la ferrea irreggimentazione delle classi lavoratrici. Il grande ciclo di lotte del “biennio rosso” e l’irrompere della democrazia di massa per un verso arrestò questo processo, per l’altro lo radicalizzò. La restaurazione e il rafforzamento delle vecchie élite del potere passò allora attraverso un nuovo soggetto politico che coniugò reazione di classe e mobilitazione di massa, approdando a nuovo tipo di stato autoritario e tendenzialmente totalitario, nonché alla distruzione del movimento operaio come soggetto collettivo. In Italia le scelte del regime rimasero “sempre orientate al conseguimento dello status di grande potenza e persistettero nel comprimere salari e consumi per la maggioranza della popolazione”. Era inevitabile “che la gente infine reagisse a tale politica, perdendo ogni fiducia potesse aver nutrito in precedenza sulle capacità del regime di rispondere alle sue difficili condizioni di vita”. Se sul piano internazionale il principio guida era quello socialdarwiniano della supremazia del più forte, sul piano interno tutto ciò comportava la militarizzazione della società, con la creazione di una fittizia unità monolitica della nazione attraverso la soppressione dei conflitti sociali, l’imposizione della gerarchia, della disciplina, della repressione di tutti i veri o presunti “nemici” dello stato. D’altra parte, per imboccare una via d’uscita, il fascismo avrebbe dovuto “abbandonare il suo unico clamoroso successo (la messa in riga delle classi lavoratrici e la riduzione del costo del lavoro)”, rinunciare “alla sua base di sostegno politico essenziale”, cancellare “le sue pretese espansionistiche”. Ma ciò avrebbe significato rinunciare a se stesso.
Pienamente da condividere è infine la conclusione secondo cui, se alla fine degli anni ottanta il fenomeno dei fascismi poteva essere considerato come tramontato, alla luce degli eventi più recenti “è difficile evitare la scomoda sensazione che la distanza, lungi dall’aumentare, stia in realtà accorciandosi”, che “un’analisi del fascismo del XX secolo assume una nuova urgenza, e fare i conti col passato diventa di stretta attualità”.
natoli@unica.it
C Natoli insegna storia contemporanea all’Università di Cagliari