Tra fossili e molecole la strada dell’homo sapiens
recensione di Telmo Pievani
dal numero di marzo 2014
Giorgio Manzi
IL GRANDE RACCONTO DELL’EVOLUZIONE UMANA
pp. 431, € 45
il Mulino, Bologna 2013
Le storie sono rischiose. Con il senno di poi addomestichiamo gli eventi del passato, li mettiamo in fila e ci lasciamo attrarre dall’idea che il presente sia l’esito necessario di una grande catena dell’essere. Spuntano eroi, prove da superare, e immancabile il lieto fine. Se poi la storia che dobbiamo narrare riguarda proprio noi – da dove veniamo e come siamo arrivati fin qui – allora il rischio aumenta. Eppure la scienza oggi accetta la sfida e racconta storie, da quella dell’universo primordiale sbirciato indirettamente in un acceleratore di particelle a quella della vita sulla Terra, che continua a sembrare ai più come un’avventura davvero straordinaria. Il fascino della teleologia è in agguato nelle nostre menti. Nel 1902 Rudyard Kipling le aveva chiamate “storie proprio così”: racconti per bambini che imitano i miti delle origini applicandoli agli animali. Così scopriamo come fu che l’elefante allungò la proboscide, perché al cammello venne la gobba e al leopardo le macchie, e come il rinoceronte si ritrovò con la pelle rugosa e un carattere assai suscettibile. Ci vuol poco per passare a come i nostri antenati quella volta si ersero in piedi, persero la pelliccia, si fecero spuntare un grande cervello in testa e armati di tecnologie e parole si sparsero in ogni dove. Naturalmente non è andata così, anche se il quadretto del progresso umano, con in cima il maschio di Homo sapiens, continua a primeggiare su giornali e siti web.
Gli evoluzionisti hanno il compito più difficile, perché devono trovare non solo le cause prossime dei fenomeni (come funziona?) ma anche quelle remote (come si è evoluto?), il che diventa particolarmente delicato se a parlare è un esemplare di Homo sapiens che cerca di spiegare l’evoluzione di se stesso. Fortunatamente, disponiamo da qualche anno di validi antidoti contro le contagiose tentazioni di raccontare “storie proprio così” sull’evoluzione umana. Abbiamo strumenti sofisticati che rendono confrontabili e controllabili le ricostruzioni che ipotizziamo. Esperimenti in laboratorio, analisi morfologiche quantitative, comparazioni, datazioni sempre più precise, riscontri ecologici e paleoclimatici, convergenze di dati indipendenti (paleontologici, molecolari e biogeografici), selezioni fra modelli alternativi, simulazioni, valutazioni di probabilità e altre tecniche permettono di fare previsioni circoscritte e di trovare controesempi, smentendo così il vecchio ritornello del tutto insulso secondo cui la spiegazione evoluzionistica sarebbe infalsificabile, nel senso cioè che puoi raccontare una storia e il suo contrario, tanto è lo stesso. Facendo pienamente tesoro di questa ben fornita cassetta degli attrezzi, Giorgio Manzi, paleoantropologo alla Sapienza di Roma e direttore del Museo di antropologia Giuseppe Sergi, ci regala ora uno splendido volume riccamente illustrato sul “grande racconto”, proprio così, dell’evoluzione umana. Lo stile narrativo è fluente e amichevole. I riferimenti alla letteratura scientifica primaria sono aggiornati al 2013, il che è essenziale in un campo di studi in rapida trasformazione a causa dell’afflusso di nuovi dati e di sorprendenti scoperte. In poco più di quattrocento pagine, lettori curiosi e studenti troveranno un’eccellente introduzione generale all’antropologia fisica, o meglio alla storia naturale dell’umanità.
Lo sfondo è quello di una giovane disciplina evoluzionistica che in un secolo e mezzo di appassionanti avanzamenti ci ha permesso di delineare una risposta alla grande questione ottocentesca: il posto dell’uomo nella natura. Liberatasi dall’ingombrante e troppo lungamente influente paradigma della scala lineare del progresso, questa scienza interdisciplinare e neodarwiniana che spazia dai fossili alle molecole ha messo ordine nell’albero filogenetico delle scimmie antropomorfe e ora sta cercando di ricostruire i contorti tracciati di diversificazione nella sotto-sotto-famiglia degli ominini. È un processo che dura da sei milioni di anni circa, da quando è vissuto in Africa l’antenato comune con gli scimpanzé attuali, e che ha prodotto una pluralità di specie divise in almeno quattro generi (ardipitechi, australopitecine, parantropi e Homo). In questo albero irregolarmente ramificato (se lo chiamate “cespuglio” l’autore vi tira le orecchie), forme diverse hanno convissuto negli stessi territori, ciascuna esibendo una miscela di caratteri trattenuti dal passato e di nuovi caratteri derivati tipici di specie successive. Ciascuna, insomma, un mosaico di tratti a suo modo unico.
Il risultato è che non è facile orientarsi fra possibili antenati comuni, vicoli ciechi ed esperimenti evolutivi falliti, anche se le innovazioni evolutive cruciali spiccano in modo chiaro: prima di tutto il bipedismo (facoltativo agli inizi e poi obbligato, sperimentato nei modi ibridi più diversi), poi le prime tecnologie litiche e soltanto a partire da due milioni di anni fa la crescita del cervello nel genere Homo. Innovazioni punteggiate, di specie in specie, più che un lento raffinamento. Districandosi con saggia moderazione fra i colleghi che tendono a far proliferare troppo il numero delle specie umane e gli altri che hanno fretta di potare il più possibile il nostro albero genealogico, Manzi difende lucidamente le sue tesi più care, come quella del ruolo delle modificazioni ontogenetiche (cioè connesse ai tempi e ai modi dello sviluppo individuale) nella diversificazione e nel successo del genere Homo, e della specie Homo sapiens in particolare.
Il “grande racconto” si tinge di epica quando introduce le molteplici uscite dall’Africa delle popolazioni umane: la prima due milioni di anni fa con Homo ergaster e Homo erectus; una probabile seconda intorno a 800.000 anni fa con Homo heidelbergensis; e poi la terza “out of Africa”, quella della nostra specie, in più ondate successive a partire da circa 120.000 anni fa. Non sono migrazioni in senso moderno, ma espansioni di areale: sempre a partire dall’Africa orientale. Il linguaggio della biogeografia è diventato centrale per capire l’evoluzione umana e per spiegare le speciazioni nel genere Homo dovute a separazione geografica. Solo in questo modo si capisce come sia possibile che le coabitazioni tra forme morfologicamente differenti, nell’accavallarsi di ripetute espansioni fuori dall’Africa, siano durate fino a tempi recentissimi.
Ci sono stati insomma molti modi di essere umani. In questo scenario su vasta scala non mancano le vicende bizzarre, come quella del nanismo insulare di Homo floresiensis, specie pigmea di antica discendenza e buona tecnologia, vissuta nel suo anfratto oceanico indonesiano fino a una dozzina di millenni fa o poco più. O come quella della dibattuta ibridazione (vedi: incontri ravvicinati di tipo preistorico…) fra Homo sapiens e altre forme umane recenti come Neandertal e l’enigmatico Homo della grotta di Denisova sui Monti Altai. Troviamo anche un aggiornamento sulla nuova datazione e sulla reinterpretazione recente dell’uomo di Ceprano.
Gli interrogativi aperti sono numerosi, come è bene che sia in una scienza in salute che aggiorna i suoi modelli e non sciorina più le “storie proprio così”. Più crescono le informazioni sulla nostra evoluzione, più aumentano i punti di domanda: non sapevamo di non sapere. Che fine hanno fatto le altre forme umane recenti? Le abbiamo portate noi all’estinzione? Quali sono le piccole differenze che hanno fatto la differenza fra il genoma di Neandertal e quello di Homo sapiens? Come si è sviluppato quell’insieme di comportamenti che sistematicamente osserviamo in Homo sapiens e che associamo all’intelligenza simbolica? Ma non corriamo troppo, per ora godiamoci il grande racconto dei nostri molteplici antenati e di chi, come Giorgio Manzi, è capace di ascoltare la loro voce nel vento.
telmo.pievani@unipd.it
T Pievani insegna filosofia della biologia all’Università di Padova