A trent’anni dalla tragedia nucleare
di Federico Paolini
dal numero di gennaio 2016
Recentemente i mezzi di informazione italiani hanno dato ampio risalto a una notizia riguardante il ritorno della fauna selvatica a Chernobyl, la località ucraina dove, il 26 aprile 1986, si è verificato il più grave incidente nucleare del XX secolo.
Ad attirare l’attenzione dei mass media è stato un articolo pubblicato sul numero 25 della rivista scientifica Current Biology (Long term census data reveal abundant wildlife population at Chernobyl, 5 ottobre 2015) che ha evidenziato la crescita di alcune popolazioni di mammiferi (in particolare alci, cinghiali e caprioli) nei 4.200 chilometri quadrati della “zona di esclusione” (quella evacuata in seguito alle alte concentrazioni di materiale radioattivo, nella quale sono state vietate le attività umane). Secondo gli autori, l’assenza dell’uomo avrebbe contribuito alla ripresa delle popolazioni animali che, prima dell’incidente, erano costantemente minacciate dalla caccia, dalla deforestazione e dalle pratiche agricole. I mezzi di informazione – in modo particolare i siti online che si rivolgono alle reti associative “verdi” (cfr. Il paradiso di Chernobyl, 8 ottobre 2015) – hanno veicolato la notizia presentandola prevalentemente come una vittoriosa rivincita della natura sull’uomo con un atteggiamento semplicistico che, prendendo in prestito il gergo sportivo, potrebbe essere riassunto come “ecocentrismo 1-antropocentrismo 0”.
Più cauta si è mostrata una parte della carta stampata che ha messo in evidenza alcuni aspetti contraddittori di quello che molti chiamano “il primo parco nazionale post-atomico”: ad esempio, un articolo apparso su Libero ha dedicato spazio anche ai danni causati dalle radiazioni sul “micro bioma delle foglie” e al raddoppiato rischio di incendi (Chernobyl, ritornano gli animali. Più di dieci specie ripopolano il territorio), mentre un precedente articolo del Corriere della Sera riferito a uno studio apparso su “Functional Ecology” ha parlato di un ripopolamento dovuto ad una “selezione non naturale” elencando la “maggior frequenza di tumori e anomalie fisiche” che affliggono “intere popolazioni d’uccelli, d’insetti e di ragni” (Chernobyl: la natura, in parte, si adatta alle radiazioni, 12 maggio 2014).
In effetti, a Chernobyl il successo biologico di alcune popolazioni animali presenta una marcata impronta antropica, nel senso che non è possibile scinderlo dalla concatenazione degli eventi umani: la capacità tecnologica di sfruttare l’energia atomica, l’incidente, la conseguente decisione di impedire la vita umana nel territorio noto come “zona di esclusione” (in realtà, come ha scritto il premio Nobel 2015 per la letteratura Svjatlana Aleksievič, per migliaia di persone non è stato affatto possibile escludere l’incidente dalla loro quotidianità poiché questo “ha avvelenato ogni cosa che hanno dentro, e non solo l’acqua e la terra” come scritto in Preghiera per Chernobyl, e/o, 2004)
I limiti dell’ecocentrismo
Chernobyl rappresenta un interessante studio di caso perché prefigura un uso pubblico della vicenda volto a sottostimare l’elemento antropico (fino, in alcuni casi, a espungerlo dalla storia) per valorizzare la resilienza della natura e, conseguentemente, per affermare la supremazia culturale e filosofica dell’approccio ecocentrico. È un esempio paradigmatico di un modello interpretativo essenzialmente dicotomico che tende a semplificare le questioni opponendo a un insieme di mali (la produzione energetica, l’eccessiva fiducia nella tecnologia…) alcuni assiomi individuati come risolutivi (la tutela aprioristica di alcuni modelli paesaggistici, l’ecocentrismo…). Le questioni ambientali, però, raramente seguono una dinamica dicotomica, ma tendono ad essere ben più articolate in quanto, assai spesso, sono le risultanti di processi mediati da dinamiche (politiche, sociali, economiche, culturali, tecnologiche) alquanto complesse.
Questo atteggiamento – che sta divenendo prevalente all’interno della galassia ambientalista – è influenzato dalle posizioni dell’ecologismo radicale caratterizzate dalla critica al concetto di sviluppo sostenibile (l’“antiutilitarismo” di Serge Latouche), da un ecocentrismo fortemente ideologizzato (l’“ecologia profonda” di Arne Naess), dalla promozione di modelli socio-economici comunitari e di scala regionale (il cosiddetto “bioregionalismo”) e dall’utopia di riconciliare l’uomo con la natura mediante il ritorno a stili di vita premoderni (ad esempio, il “primtivismo” di John Zerzan).
L’approccio ideologico descritto sopra sta contribuendo a discorcere le conseguenze dell’incidente nucleare fino a presentarle come un caso anomalo di rewilding (in italiano si può tradurre come “rinaturalizzazione”). Con questo termine si indica una pratica conservazionistica le cui basi teoriche sono state precisate nel 1999 da Michael Soulé e John Terborgh (Continental Conservation: Scientific Foundations of Regional Reserve Networks, Island Press, 1999) e sistematizzate da Dave Foreman (Rewilding North America: a vision for conservation in the 21st century, Island Press, 2004), un ambientalista statunitense noto per aver fondato, nel 1979, l’organizzazione radicale Earth First!
L’obiettivo del rewilding è quello di ripristinare le condizioni naturali di un territorio mediante la reintroduzione delle specie animali fondamentali (anche estinte, mediante la ricostruzione del dna) e dei predatori apicali. Una volta ristabilite le condizioni naturali di un ambiente (o, meglio, quelle ritenute tali), i progetti di rewilding mirano a connettere fra loro le diverse aree rinaturalizzate in modo da realizzare progetti di conservazione su larga scala seguendo i principii della “island biogeography” (“biogeografia insulare”, cfr. Island biogeography; Robert MacArthur, Edward Wilson, The Theory of Island Biogeography, Princeton University Press, 1967, rist. 2001), secondo la quale le aree protette scarsamente estese ed isolate sono altamente vulnerabili e, quindi, non sono in grado di assolvere al compito per il quale sono state create.
Attualmente, il rewilding è promosso da organizzazioni presenti in Nord America (The Rewilding Institute; Wildlands Network; Wild Foundation), Europa (European Wildlife; Rewilding Europe; The Wildland Network UK; Rewilding Britain; Rewilding Apennines), Australia (Rewilding Australia, Gondwana Link) e Africa (Peace Parks Foundation).
In Europa sono attivi progetti volti a ricreare il patrimonio genetico dell’uro (un bovino estintosi nella prima metà del Seicento, cfr. TaurOs Programme); a istituire una riserva al confine fra la Germania, l’Austria e la Repubblica ceca con l’obiettivo di dare vita ad “un’arca di Noè per la maggioranza delle specie europee” (cfr. European Wildlife); a rinaturalizzare un milione di ettari per costruire un “corridoio protetto” dalla penisola Iberica fino al Danubio (cfr. Magnus Sylvén, Staffan Winstrand, A Vision for a Wilder Europe, Wild Foundation, 2015); alla reintroduzione di specie rare (il bisonte europeo in Spagna e in Germania, i cavalli di Przewalski in Francia).
Il rewilding, stato arcadico o stato di natura?
Nonostante godano di una narrazione al limite del favolistico, i progetti di rewilding alimentano atteggiamenti conflittuali e contradditori all’interno delle comunità coinvolte. Un esempio efficace riguarda la riserva di Oostvaardersplassen in Olanda, dove è stata reintrodotta una popolazione di bovini di Heck (affini all’uro) e di cavalli konik (lontani parenti dei selvatici tarpan, scomparsi alla fine dell’Ottocento). Gli animali della riserva vengono lasciati vivere allo stato brado senza alcun intervento umano: questo, durante l’inverno, causa la morte degli esemplari più deboli con un tasso di mortalità che, per gli erbivori, può raggiungere il 40 per cento. Ebbene, dopo che la televisione olandese ha mostrato le immagini degli animali in difficoltà durante il periodo invernale, il caso dell’Oostvaardersplassen ha alimentato un’aspra polemica politica che ha costretto il governo olandese a istituire una commissione per individuare una soluzione (cfr. Elizabeth Kolbert, Il richiamo della natura, in “Internazionale”, 21-27 giugno 2013, n. 1005). Una volta appreso il reale “stato di natura” degli animali rinaturalizzati, all’interno del discorso pubblico è prevalso rapidamente un atteggiamento di rifiuto alimentato da una concezione del mondo animale sempre più antropomorfizzata. In sostanza, la formulazione teorica del concetto di rewilding suscita consenso poiché l’opinione pubblica lo immagina come il ritorno ad uno stato arcadico (o, forse, come la trasposizione nella realtà dell’antropomorfismo disneyano, si pensi ad un film come Il re leone), mentre l’effettivo ripristino dello “stato di natura” (simboleggiato dagli animali emaciati per la fame e per il freddo) è considerato un’inaccettabile distopia.
Insomma, il blando ambientalismo arcadico e favolistico che pervade l’opinione pubblica finisce per mostrare come, grattato via il guscio ideologico dell’ecocentrismo, il rewilding assomigli molto a diversa forma di manipolazione antropica della natura. Nel 2013 lo aveva notato il poeta John Burnside che, dalle pagine del “New Statesman”, definiva il rewilding un’“impraticabile fantasia” chiedendosi: “chi siamo noi” per decidere quali specie devono vivere in un territorio (Rewilding: Who are we to Dictate what Species Live Where?, 28 agosto 2013)?
federico.paolini@unina2.it
F Paolini insegna storia globale del mondo contemporaneo all’Università di Napoli