Chiamata alle armi per una cultura dello sguardo
recensione di Tiziana Serena
dal numero di gennaio 2018
Marie-José Mondzain
L’IMMAGINE CHE UCCIDE
La violenza come spettacolo dalle Torri gemelle all’Isis
ed. orig. 2015, trad. dal francese di Eleonora Montagné
pp. 144, € 13,50
Edb, Bologna 2017
Partiamo subito da una questione banale: nell’edizione francese il punto di domanda nel titolo, L’image peut-elle tuer?, si poneva nei termini di una semplicistica retorica? Se pensiamo che di fronte a quel visibile enorme, su cui si spalancano le numerose immagini che consumiamo quotidianamente, la passività dello spettatore debba divenire azione, allora in quell’innalzarsi dell’intonazione della frase l’interrogativo potrebbe mostrare la sua forza, lasciando aprire sotto di esso uno spazio vuoto. In altre parole un campo di possibilità. Filosofa radicale, Marie-José Mondzain, francese, nata in Algeria, da molto tempo si interroga sull’immagine e sul regime delle immagini con lo scopo , come ama ripetere , di difendere il principio del “la pensée malgré tout”. Non è solo un gioco di specchi rispetto al volume Images malgré tout (2003) di Georgers Didi-Huberman, che aveva incendiato il dibattito sulle fotografie nell’inferno di Auschwitz, sostenendo il nostro diritto a considerarle come tali, e che costituisce ancora una pietra miliare nel settore della filosofia delle immagini, perché il libro di Mondzain suona come una chiamata alle armi.
Scritto a caldo dopo i fatti dell’11 settembre del 2001, la prima edizione usciva nel 2002, la seconda nel 2015 fino a giungere quest’anno in traduzione italiana. Il libro, tuttavia, non ha perso il suo mordente per un semplice motivo: i principali temi trattati sono ancora attuali e tutti squisitamente politici. Il primo è relativo alla produzione visiva (nella forma di fotografie e video) come un vero e proprio mercato, con tutte le sue regole economiche. Era credibile nel 2002. È lapalissiano nel 2017. Il secondo tema è incentrato su una analisi dello schermo come dispositivo senza precedenti nella costituzione dell’immaginario, in quanto produce nello spettatore effetti “fusionali” e “confusionali”. Tema assai frequentato nei visual studies, basti pensare all’opera di Antonio Somaini sul cinema, a partire dalla revisione dei concetti di medium e di dispositivo, come insieme dinamico e instabile di strumenti e spazi. Anche se per Mondzain lo schermo, oltre ad aver instaurato un nuovo rapporto tra mimesis e finzione, ha anche creato letteralmente nuove liturgie sociali. La filosofa punta il dito sul controllo dell’immagine come strategia adottata da coloro che vogliono sorvegliare il “silenzio del pensiero”.
Un appello a tutti gli educatori
Troppo politico e démodé? Chi avesse dubbi su quest’ultimo aspetto, potrà considerare la permanenza di un luogo comune che ascrive all’immagine (fotografia, video) tutti i mali di questo nostro mondo, condanna la sua esecrabile violenza, stigmatizza (senza proporre valide alternative sul piano culturale) la sua dilagante diffusione in tutti i canali di comunicazione. In altre parole, la solidità del luogo comune permetterebbe di constatare come il pensiero stesso abbia perso i suoi diritti, o quanto meno li abbia ridotti in relazione all’avanzare della violenza nel campo del visibile. Il rischio però è di utilizzare la parola “violenza” come un chiavistello bulgaro, se non altro perché il sottotitolo dell’edizione italiana lo suggerisce. Tuttavia, Mondzain non si concentra né sulle immagini della violenza né sulla violenza delle immagini. La questione risiede altrove: è la violenza che viene esercitata dallo “spettacolo delle visibilità” ai danni del pensiero e della parola. Ed è la violenza di questo spettacolo che agisce sul singolo spettatore allo schermo, determinando così il suo posto. In effetti, mettere al suo posto lo spettatore, tramite dispositivi “identificatori” e “fusionali”, significa mantenerne una incapacità simbolica. È questa incapacità che lascia spazio di azione all’immagine, la quale nella sua visibilità permette l’identificazione dell’“irrappresentabile”, accorda lo svolgersi del carattere performativo dell’immagine. Senza considerare una “giusta distanza” dello spettatore dallo schermo non possiamo interrogarci non solo su cosa fa l’immagine, ma neppure su cosa essa fa fare. Qui un secondo snodo.
La vera violenza dell’immagine inizia lì dove la società lascia inermi gli spettatori di fronte alla “voracità delle visibilità”. E da qui inizia la chiamata alle armi: la necessità di costruire una cultura dello sguardo, uno sguardo che sappia dotarsi della “passione di vedere”. Come sostiene Mondzain, l’immagine oggi “esige una nuova e singolare gestione della parola tra coloro che incrociano lo sguardo nella condivisione delle immagini”. La costruzione di una cultura dello sguardo è però una questione squisitamente politica. Il libro lo possiamo considerare, pertanto, un appello a tutti gli educatori che si occupano di immagini o che semplicemente le utilizzano.
tiziana.serena@unifi.it
T Serena insegna storia della fotografia all’Università di Firenze