Un desiderio d’infinito tinto di umano
recensione di Piero Cresto-Dina
dal numero di dicembre 2017
Enrico Camanni
IL DESIDERIO DI INFINITO
Vita di Giusto Gervasutti
pp. VIII-270, € 19
Laterza, Roma-Bari 2017
Diversi interrogativi circondano la figura di Giusto Gervasutti, alpinista emerso sulla scena degli anni trenta come un fuoriclasse assoluto, destinato a segnare nel profondo la storia di una pratica sportiva e culturale che proprio in quegli anni stava attraversando la sua fase ascendente, esemplarmente votata alla ricerca della linea perfetta di salita e al superamento di difficoltà tecniche a malapena concepibili nel contesto alpinistico della generazione precedente. Grazie a un pluridecennale lavoro di ricerca fondato non solo sull’esame delle fonti bibliografiche, ma anche sulle testimonianze orali, sul materiale fotografico e in parte sulla frequentazione diretta delle montagne di Gervasutti, Enrico Camanni affronta questioni fin qui irrisolte circa la vita di un alpinista che, originario del Friuli, si trasferisce a Torino nel 1931 dopo un essenziale apprendistato sulle Dolomiti e sulle montagne della Carnia. Il primo interrogativo riguarda precisamente il significato di un tale spostamento, che vede Gervasutti concentrare i propri obiettivi alpinistici sul granito e sullo gneiss delle Alpi occidentali proprio nel momento in cui la “battaglia per il sesto grado” si combatteva altrove, sul calcare e sulla dolomia del settore orientale. È un fatto che nelle Dolomiti l’alpinista friulano compia soprattutto impegnative ripetizioni di vie già aperte da altri, mentre nel massiccio del Monte Bianco e sulle montagne del Delfinato realizzi l’idea di un alpinismo esplorativo, teso alla ricerca di nuove vie e alla formulazione di nuovi problemi. Quali sono le ragioni di una tale scelta? La risposta di Camanni sembra fare appello, almeno in parte, a considerazioni di ordine estetico: campione del modernismo, Gervasutti coltiva l’idea di un alpinismo “lineare, veloce ed elegante”, la sua immaginazione intuisce nelle pareti delle Alpi occidentali linee di fantasia che rispecchiano il suo carattere teso all’essenzialità, ama gli spigoli e i pilastri, le fessure, le linee virtualmente racchiuse nella pietra, le architetture ardite e insieme leggere, conformi a un ideale di arrampicata libera che celebrerà i propri trionfi alcuni decenni più tardi.
Ricorre nella riflessione sull’alpinismo il luogo comune del “ritrovamento dell’altro”, l’idea del rapporto con la natura intatta quale “compensazione” nell’epoca della Zivilisation. Tra i protagonisti classici della corsa alle montagne proprio la filosofia alpinistica di Gervasutti dimostra tuttavia come l’evocazione dell’inesplorato possa essere in realtà stimolata da un’immaginazione satura di narrazioni. Egli vede ovunque tracce dell’umano. Le sue scalate sono quasi sempre precedute da letture, dissemina nelle relazioni riferimenti alle pubblicazioni disponibili, al suo primo arrivo a Chamonix traccia un ritratto alpinistico di Balmat, il primo salitore del Monte Bianco, studia attentamente le relazioni delle salite altrui, coltiva predilezioni nei confronti di alpinisti del passato, ammira l’understatement dell’inglese Mummery, lo stile antiretorico e spesso autoironico della sua scrittura. Rendere giustizia a questa dimensione dell’alpinismo come forma di conoscenza e di relazione aiuta a correggere un’immagine di Gervasutti consolidatasi a partire dalla pur encomiabile ricostruzione che ne fece a suo tempo Gian Piero Motti, tutta incentrata sul profilo di un alpinista romanticamente teso alla sfida individuale e ossessionato dalla necessità di proiettare le proprie pulsioni nevrotiche sul piano dell’azione estrema, al limite dell’impossibile. Era stato Massimo Mila, che di Gervasutti conservava ricordi di prima mano, a ricordarci come affabilità, serenità, umano senso delle relazioni sociali fossero state caratteristiche non meno rilevanti nella personalità dell’alpinista, e va citato tra i meriti del libro di Camanni l’aver composto, sulla scorta di tale valutazione, un ritratto a noi più familiare e insieme più completo dell’alpinista friulano, dove la radice romantica del “desiderio di infinito”, che pure rappresenta un tratto innegabile della sua ricerca, trova il proprio orizzonte nello spazio del vivere comune e degli umani affetti. A questo risultato contribuisce in particolar modo la ricostruzione dell’ambiente alpinistico torinese, la messa a fuoco delle frequentazioni di Gervasutti e delle sue relazioni intellettuali e professionali, la considerazione del suo tiepido coinvolgimento nella retorica, allora pervasiva, del regime fascista. L’autore riesce in tal modo a fare luce sulla dimensione, per così dire, “borghese” di un uomo che pure considerava l’attività alpinistica come la forma più alta di vita, fatalmente limitata dalle necessità del vivere quotidiano, e rende così possibile una migliore comprensione di aspetti della vita di Gervasutti fin qui nascosti sotto l’alone leggendario che da decenni ne circonda la figura.
picresto@tin.it
P Cresto-Dina è dottore di ricerca in filosofia e insegnante