Il rapporto fra le parole e le cose
Che i libri si occupino delle parole e del loro significato è una rassicurante ovvietà. Seguire le trasformazioni e le manipolazioni dei significati delle parole in momenti e contesti diversi resta un passatempo quasi obbligatorio per autori e recensori. In questi mesi, l’attenzione al rapporto fra le parole e le cose è diventato più urgente. La presa d’atto che il divario fra la realtà e le sue rappresentazioni pubbliche stia producendo effetti deleteri sulle persone ha spinto evidentemente molti autori a riprendere in mano termini e concetti di uso comune per esaminarne il senso e le sue sfumature interne.
Questo numero contiene alcuni esercizi di lettura di grande interesse, in campi anche molto distanti tra loro: dal dolore inflitto con la tortura, all’iconoclastia come manifestazione violenta di una convinzione religiosa (Settis, a p. 9), dall’ambigua e travisata espressione “anni di piombo” (Primo piano a p. 18), al senso troppo ampio di “marrano”, da non estendere a qualsiasi minoranza esclusa (recensione di Marina Caffiero a Di Cesare, p. 31); dalle parole mal capite e mal tradotte dal giapponese (recensione di Failla all’edizione italiana di Hokusai p. 30) al manuale di parole “ostili” redatto da 10 scrittori, nel disperato tentativo di recuperare un’etica del linguaggio comunicativo (p. 32).
Ma di questo sforzo collettivo vorrei mettere in luce un nucleo centrale che collega e illumina realtà drammaticamente attuali. La lunga prolusione del presidente emerito della corte costituzionale Giovanni Flick sulla tortura (Segnali p. 5-6) ci ricorda non solo i significati storici e giuridici del terribile istituto, ma la sua dialettica e paradossale convivenza con lo sforzo delle stesse istituzioni a cancellare medicalmente il dolore con le cure palliative: una promessa di felicità che convive con un permesso, ormai non più celato, di somministrare legalmente il dolore ai nemici e ai sospetti. Ma il dolore “individuale” è sempre l’inizio di un processo di disumanizzazione collettivo, e industrializzato. Del resto, l’accostamento della tortura al dolore inflitto da uno stato, in modi diversi, suggerisce nuovi interrogativi. Il Primo piano sulle migrazioni contiene in tal senso segnali inquietanti: sulle parole, in primo luogo, come la riflessione di Agus Morales sul reale significato dell’etichetta di “rifugiati” (recensito a p. 15). Le persone che scappano nei campi, sono esattamente il contrario di chi ha trovato rifugio: sono persone esposte a ogni rischio, dei “non rifugiati”. Parole ed etichette che creano immagini “reali”, quadri mostruosi di paure alimentate da un linguaggio pubblico segnato ancora dall’ossessione del pericolo migratorio, così simile, per certi versi, a quello usato nella letteratura coloniale degli anni ’30-40 (Caterina Romeo, p. 15).
Si tratta di genealogie reali, non immaginarie, come mostra il libro di Emma Larkin che riscopre le radici dei capolavori di Orwell (1984 in primo luogo) nell’esperienza dello scrittore come funzionario del regime coloniale inglese in Birmania.
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