È ora di svegliarsi
Sul numero di marzo dell’ “Indice”, in una pagina dedicata al primo dei quattro volumi che propongono una selezione delle oltre 15.000 lettere scritte da Beckett tra il 1929 e il 1989, ci troviamo di fronte all’attraverso di quella distanza fra individui che avviene quando è possibile un rispecchiamento reciproco dettato da una forte affinità: “La corrispondenza copre un arco di circa dodici anni in cui Joyce contribuì in maniera decisiva a chiarire al futuro autore di Aspettando Godot cosa significava ‘essere un artista’. Sam ebbe difficoltà a smarcarsi da Joyce (e dalla sua famiglia, Lucia in particolare), anche perché tra i due irlandesi le affinità erano evidenti. Avevano lo stesso atteggiamento di rifiuto nei confronti di patria, famiglia e società e Sam fece sua la dichiarazione programmatica di Dedalus: ‘il silenzio, l’esilio e l’astuzia’”.
Ma se le frontiere fra persone si possono talvolta attraversare, altre frontiere possono essere molto più pericolose, come ben sa Roberto Bolaño, di cui ora viene pubblicato un romanzo scritto nel 1984. Chi conosce l’opera dello scrittore, dai Detective selvaggi, a Notturno cileno e 2666 riconoscerà facilmente, come ci spiega Filippo Polenchi, “Città del Messico, con le sue albe ‘lebbrose’, le notti infinite, la poesia, uno strepitoso grand tour d’amore fraterno per i bagni pubblici della città, con epifanie comunitarie di orge al vapore. Lo spirito della fantascienza è un romanzo complesso, non finito, frammentario”.
E in qualche modo “fantascientifico è anche il libro scelto come “libro del mese”, con cui Igoni Barrett (intervistato per “L’Indice” da Pietro Deandrea) fa il suo ingresso nella scena nigeriana contemporanea, figurando al fianco di Teju Cole, Chimamanda Ngozi Adichie e Helon Habila: “La mattina di un importante colloquio di lavoro Furo Wariboko, trentatré anni, nigeriano, disoccupato cronico, si sveglia e scopre di essersi trasformato in un bianco dagli occhi verdi e capelli rossi. Così inizia per Igoni Barrett la sua variante africana della Metamorfosi kafkiana, riflessione tragicomica sulle questioni identitarie e razziali, in un paese, la Nigeria, e un continente, l’Africa, dove da sempre il colore della pelle pregiudica chi sei e cosa potrai fare nella vita, tarpa i tuoi sogni e le tue ambizioni e limita i tuoi orizzonti se hai avuto la sfortuna di nascere del colore sbagliato. Su questa inspiegabile ma al tempo stesso irreparabile trasformazione si basa dunque tutta la trama di Culo Nero”. Attraverso una vicenda rocambolesca e surreale, l’autore trova il modo, come scrive Francesca Giommi , “anche per rievocare le dittature militari degli anni ottanta e novanta, l’inveterata umiliazione per i fallimenti della Nigeria, come pure l’amara nostalgia per la capacità amministrativa della dominazione coloniale, ma soprattutto per descrivere le vie di Lagos, megalopoli africana in cui alle baraccopoli senz’acqua si contrappongono i quartieri residenziali con vialetti di sabbia bianca”.
Una voce che si leva alta per denunciare l’ingiustizia sociale e la violenza della colonizzazione e che ci porta al cuore del giornale, alla pagina in cui Maurizio Veglio, con grande intelligenza, ci aiuta a leggere nella sentenza del primo dicembre 2017 della corte d’ Assise di Milano il primo racconto corale sulla mostruosità dei lager libici, che stravolge e modifica anche il vocabolario del grande buco nero post Gheddafi: “I ‘migranti incarcerati perché privi di documenti’ si scoprono, nel nostro codice penale, persone sequestrate a scopo di estorsione, vittime di sevizie e abomini. La ‘polizia che arresta’ è il travestimento di gang armate, bande di strada, Asma Boys che popolano gli incubi dei sopravvissuti ad anni di distanza. Gli ‘arabi che liberano i subsahariani per assumerli’, dimenticandosi poi di pagarli, sono i moderni schiavisti, padroni della scacchiera e delle pedine intrappolate in un labirinto di compravendite, cessioni e aste. Gli ‘uomini che si imbarcano’ diventano bestie recintate, minacciate e pestate, stipate in barconi pericolanti in partenza dalla bocca dell’inferno. Il tutto affidato alla regia della criminalità organizzata transnazionale, autentici imprenditori feudali del XXI secolo. I titoli dell’indice della sentenza scrivono il sommario di un’opera horror: ‘i campi di raccolta’, ‘le punizioni e le torture’, ‘l’assenza di cure mediche’, ‘le violenze sessuali’, ‘gli omicidi’, ‘le cicatrici sui corpi delle parti lese’”. Il protagonista di questo romanzo-verità, a lungo atteso, è un cittadino somalo, ex migrante affrancato e aguzzino crudele di migliaia di propri concittadini, arrestato a Milano perché circondato da una folla di vittime che hanno trovato la forza di chiedere l’intervento delle forze dell’ordine mostrando le cicatrici e i corpi marchiati. Veglio ci introduce in un mondo di orrori in cui la morte non è il male peggiore, un mondo che il grande Shakespeare (si veda la recensione di Camilla Caporicci al volume appena uscito dei Drammi storici, il terzo delle Opere complete pubblicate da Bompiani) non avrebbe saputo immaginare. Mentre la propaganda politica si degrada in questi giorni, nel nostro Paese, sulle note del peggiore razzismo, Veglio lancia un forte grido di allarme che non può restare inascoltato: “Il destino dei migranti salvati, oltretutto per mano della marina libica, sospettata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu di sequestri in mare, pestaggi e rapine, nonché di attività di sfruttamento lavorativo e violenze sessuali, è oggi noto. Eppure è ancora l’ignoto – l’estraneo, il corpo femminile, la pelle scura, le lingue straniere, le divinità proteiformi – a turbare il sonno degli uomini-bambini. È ora di svegliarsi”.
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