La faccia triste dell’America
Il numero di dicembre dell’“Indice” sembra comporre un quadro complesso prendendo in esame aspetti diversi della società e della cultura degli Stati Uniti. Si parte con il Segnale di Giaime Alonge dedicato all’attualità e ai casi di Weinstein e Spacey: “La storia di Hollywood, sin da suoi inizi, è anche una storia di clamorosi scandali sessuali. In ordine cronologico, il primo capitolo di questa lunga e articolata vicenda, che arriva fino al caso recentissimo di Harvey Weinstein, è il processo a Fatty Arbuckle, divo del cinema comico, il quale, nel 1921, viene accusato di stupro e omicidio di una giovane attrice, morta durante un party selvaggio. Fatty, al termine di un procedimento giudiziario piuttosto complesso, sarà assolto per insufficienza di prove, ma ormai l’attore era screditato e non riuscirà mai più a tornare a recitare (…). Gli scandali sessuali di Hollywood sono sempre stati scandagliati, oltre che dai giornalisti, anche da personalità politiche e religiose, che li hanno utilizzati come casus belli all’interno di più ampie campagne di moralizzazione, che riguardavano non tanto, o non solo, la condotta privata dei cineasti, ma piuttosto il contenuto del loro lavoro. Già alla sua comparsa, il cinema viene visto con sospetto da fette consistenti del clero e delle forze politiche, in America come in Europa”.
Nel Segnale dedicato all’identità caraibica Roberta Cimarosti sceglie invece una prospettiva atipica e illustra un saggio che “spiega la visione barocca dello sguardo creolo inclusivo che riproduce il reale meraviglioso della società che lo circonda: ‘E perché mai l’America Latina è la terra d’elezione del barocco? Perché ogni simbiosi, ogni meticciato, genera un barocchismo. Il barocchismo americano si accresce con la creolità, con il sentire del creolo, con la coscienza che si sviluppa nell’uomo americano, sia egli figlio di un bianco venuto dall’Europa o figlio di un nero africano o figlio di un indio nato nel continente’”.
Dal barocchismo creolo, da “un immaginario che inizialmente ci include come presenza indesiderata, restituendoci gli orrori del contro-rinascimento, e poi si allarga, fino a restituirci la speranza di poter crescere, assumendo un punto di vista creolo sul mondo” si può passare alla scoperta dell’Epopea americana della grande scrittrice statunitense Joyce Carol Oates pubblicata fra maggio e ottobre dal Saggiatore e recensita da Paolo Armelli: “I quattro romanzi, tutti inediti tranne il terzo (presentato però qui in una nuova traduzione), sono stati accostati da Oates come una serie che doveva ‘esplorare le vite interiori di giovani americani particolarmente rappresentativi dal punto di vista della lotta di classe’. Da Il giardino delle delizie (1967), che narra l’abbrutimento e la redenzione delle zone più rurali degli States, a I ricchi (1968), ambientato nel quartiere bene di Detroit; da Loro (1969), su due fratelli immersi in condizioni di povertà e radicalismo, a Il paese delle meraviglie (1971), che racconta l’epica affermazione di un ragazzo orfano che fa propria una particolare visione dell’american dream, in questi romanzi c’è tutta l’America che uno possa desiderare leggere in un totale di duemila pagine”. Un’America che ritorna nell’ultimo libro di Tom Drury, A caccia nei sogni; nell’intervista rilasciata a Matteo Fontanone, Drury dichiara significativamente: “Il sogno americano è artificiale, è un cliché perpetrato a uso e consumo del mondo che ci guarda dall’esterno, nel paese di oggi ha perso qualsiasi significato o aderenza simbolica. Mi piace che i sogni siano un fatto privato dell’individuo, non che vengano imposti dall’alto. C’è un personaggio di A caccia nei sogni, Mona, che ha una grande idea di sogno americano: era una sorta di celebrità nel mondo della medicina con una carriera brillantissima davanti a lei, ma rimane coinvolta in uno scandalo di morfina. Mona impara dalla sua caduta, sviluppa una certa idea di resistenza e autonomia, finisce per aprire un ambulatorio in un quartiere difficile”.
E di oggi, di sogno americano infranto, di razzismo e di differenze sembra parlare anche il bellissimo romanzo di La ferrovia sotterranea di Whitehead, ambientato nell’America schiavista di metà Ottocento, su cui scrivono Cristina Iuli e Stefano Moretti: “Curiosamente, un altro libro di Whitehead (Apex nasconde il dolore) ruotava intorno a una città che deve cambiare nome, una città fondata da ex schiavi, dove bianchi e neri cercano di creare una nuova identità comune. Con questo ultimo libro, che ha vinto i due più importanti premi americani, il Pulitzer e il National Book Award, Colson Whitehead è andato all’origine di quella ferita, guardando dritto negli occhi un’onta che nessun ‘Apex’ può lenire o nascondere: il razzismo, che con tutte le sue svariate, infide incarnazioni, ancora affligge la nostra epoca. Dopo sette libri, tutti tradotti in italiano, e diversi anni di studio e preparazione, Whitehead ha deciso di fronteggiare la pagina più scura della storia del proprio paese regalandoci un romanzo potente”.
Nella stessa direzione sembra illuminante la vicenda di Sonia Sotomayor, primo giudice ispanico –per di più donna – nella storia della Corte suprema federale statunitense che ha scritto un’interessante autobiografia recensita su questo numero da Elisabetta Grande: “Per quanto l’autobiografia della Sotomayor possa sembrare veicolare il messaggio ottimista che nella land of opportunity con un pizzico di fortuna, molta capacità e tanta buona volontà qualsiasi meta è in fondo raggiungibile, la cruda verità è che le condizioni socio-politiche che ne hanno sostenuto l’ascesa alla più alta carica giudiziaria del paese sono state assolutamente eccezionali e sono oggi inesistenti. La seconda amara constatazione del lettore di questa avvincente biografia (che tuttavia pecca per la traduzione approssimativa dei termini giuridici) è la scoperta che anche in circostanze di estremo favore, come quelle che circondano la bella avventura dell’autrice, i costi per raggiungere l’olimpo della professione forense sono altissimi. E ciò in termini tanto strettamente personali quanto politici”.
Una realtà variegata e piena di ombre insomma, quella americana, illustrata nei suoi vari aspetti e per più versi inquietante, ma che non possiamo sentire lontana, dal momento che, come spiega ad Alessandro Azzolina Valeria Rumori, direttrice dell’Istituto italiano di cultura a Los Angeles, è presente negli Stati Uniti “una grossa comunità di discendenza italiana che vuole coltivare le proprie radici, insieme ad una forte attrazione per la cultura e lo stile di vita del nostro paese, che spinge giovani e meno giovani ad avvicinarsi allo studio della lingua italiana”. I nostri autori di punta a Los Angeles Dante Pirandello, Calvino ed Elena Ferrante.
Molte altre cose interessanti anche al di fuori del continente americano: Simone Garino, in occasione degli otto concerti a Torino in cui i Kraftwerk hanno eseguito quasi integralmente la loro discografia, parla di “ritorno al passato” della band “che forse più di tutte, nell’ambito della popular music, ha contribuito alla sperimentazione nel campo dell’elettronica e che ha fatto del futuro (e della sua rappresentazione) la tematica centrale della sua produzione artistica”. Originali e brillanti infine le due pagine in cui Sara Marconi e Chiara Bongiovanni hanno illustrato ai lettori le novità editoriali nel campo inesplorato dei graphic novel per piccoli lettori.
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