Un addio
Purtroppo, dopo più di 17 anni di direzione della rivista, ci ha lasciato il nostro direttore Mimmo Càndito, che abbiamo voluto ricordare con immagini e testi, nelle prime pagine del numero di aprile. Uno stralcio di un romanzo inedito, il primo editoriale scritto per “L’Indice”, una preziosa testimonianza di Vittorio dell’Uva che per definire l’amico ha dichiarato giustamente che era “più attento a schivare il conformismo che le pallottole”.
Fra gli altri ricordi anche quello della redazione: “Che sia stato un grande onore essere la sua redazione non abbiamo mai avuto l’occasione di dirglielo, e forse non lo avevamo neppure del tutto realizzato fino a ora. Ma non lo abbiamo fatto anche per un motivo più profondo: perché i nostri rapporti non hanno mai avuto nulla di cerimonioso. Qualche volta, non sempre, ci siamo reciprocamente compiaciuti di aver mandato in stampa un bel giornale, ma era un compiacimento collettivo, un ‘bravi tutti’ che esprimeva essenzialmente il piacere della condivisione. Quello che ha accomunato lui e noi, quelli che con lui hanno lavorato più da vicino in questi anni, sono gli atteggiamenti, il registro, si potrebbe quasi dire la postura”. Un registro in cui alla serietà si accompagnava la diffidenza verso i cliché e i toni drammatici (dal momento che i mali del mondo li aveva visti da vicino e li sapeva riconoscere). Se siamo ancora, come Mimmo scriveva nel suo primo editoriale e nonostante tutte le difficoltà incontrate in questi anni, “un pezzo, non marginale, della storia della cultura italiana”, lo dobbiamo molto al rigore del nostro direttore e al suo incoraggiamento nei confronti dell’autonomia del lavoro redazionale.
Così, pensando a lui e sfogliando le pagine della nostra rivista, non possiamo che guardare ai pezzi che avrebbero attratto la sua attenzione e sarebbero stati “nelle sue corde”. Primo fra tutti il segnale di Giorgio Mariani sul libro Il buio al crocevia di Elliott Ackerman che fa parte del “folto gruppo di scrittori statunitensi che, nel corso degli ultimi quindici anni, ha cercato di tradurre in letteratura le guerre americane del nuovo millennio”. In questo suo romanzo le figure di primo piano sono tutte siriane, mentre gli americani non hanno un ruolo di rilievo: “Più che ‘politiche’ o ideologiche, le motivazioni alla base delle scelte di Ackerman paiono squisitamente letterarie. Quello che lo interessa come scrittore è lo stesso mondo del quale scrive come studioso e giornalista (Ackerman, dopo aver combattuto sia in Afghanistan sia in Iraq, vive da anni a Istanbul, dove copre soprattutto il conflitto siriano)”. Sarebbe piaciuto molto al nostro direttore questo romanzo non lineare “che disegna in modo efficace un mondo di inganni infiniti, disperazione e violenza grazie a un linguaggio scarno e preciso. Il modello è chiaramente il primo Hemingway, e la vicenda di amore e guerra narrata da Ackerman, pur se distante da quella di Addio alle armi, condivide con quest’ultimo testo alcune tonalità, atmosfere e situazioni”.
Sempre all’interno della sezione dei segnali, Mario Valdacchino ci guida invece alla scoperta di una serie di saggi che analizzano la storia della presa di coscienza degli scienziati sulle propri responsabilità nelle pratiche di guerra: “Le proposte di abolizione della guerra, o almeno di riduzione della sua potenza distruttiva, sono antiche come la guerra. Sono diverse l’una dall’altra, ma hanno una caratteristica comune: prevedono una qualche forma di ‘disarmo’: una riduzione quantitativa e qualitativa delle armi o una limitazione nel modo di utilizzarle. L’esperienza militare ha però dimostrato che l’introduzione di una nuova arma favorisce chi la usa per primo. Dall’arco ai droni, è dimostrato che l’innovazione nelle tecnologie militari ha sempre premiato chi è riuscito a farla”.
Considerazioni che ci portano direttamente nel cuore del nostro speciale di quattro pagine su Primo Levi fra scrittura e chimica, seguendo le utili riflessioni di Martina Mengoni e Gian Luigi Beccaria: “Chimica e letteratura sono diventati per Levi parenti stretti: 1) perché con il minimo dei mezzi possono entrambe creare il massimo di effetti; 2) perché c’è una logica economica che governa i due mestieri, e che si trasfonde nella scrittura: Levi ribadisce più volte che l’’abitudine a scrivere compatto, a evitare il superfluo’, ‘la precisione e la concisione’, gli ‘sono venute dal mestiere di chimico’. Precisione e concretezza tra l’altro non avvicinano soltanto la prassi, ma l’etica del letterato e del chimico, dal momento che uno scrittore al pari dello scienziato dovrebbe perseguire il nitido riordinamento conoscitivo delle cose, perché lo scrivere risponde al bisogno di rimettere in ordine un mondo caotico”.
E seguendo il filo di questo riordinamento conoscitivo e sulle tracce di ciò che al nostro direttore sarebbe piaciuto leggere con gusto eccoci infine al “Primo piano”, per comprendere, attraverso la storia dei Longobardi recensita da Carlo Citter, come guerriglia e guerra fredda fossero già diffusi nel quinto secolo”. Peccato che non tutti i periodi storici abbiano dei cronisti coraggiosi, attenti e spericolati come quello che abbiamo avuto la fortuna di conoscere noi.
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