Quando si dice blues bisogna dire B.B. King   

B.B. King il re del blues della storia afro americana

di Andrea Carosso

dal numero di luglio/agosto 2015

Dei tre re del blues moderno, Albert King, Freddie King e B.B. King (nessuna parentela tra di loro), quest’ultimo è stato di gran lunga la stella più brillante, l’artista che ha definito il blues elettrico moderno e lo ha portato, prima in America e poi nel mondo, al grande pubblico, prevalentemente bianco. “Quando si dice ‘il blues’, bisogna dire ‘B.B’” afferma Aaron Neville in apertura del bellissimo documentario biografico The Life of Riley (John Brewer, 2012), in cui anche Eric Clapton lo celebra, icasticamente: “È lui il maestro”. B.B. King si è spento lo scorso 15 maggio, alla soglia dei novant’anni, dopo una carriera straordinaria: quarantacinque album in studio (senza contare i live), quindici Grammy (nessun artista blues ha fatto meglio di lui), una trafila di altre onorificenze e, soprattutto, migliaia e migliaia di concerti in giro per l’America e il mondo intero.

Riley B. King nasce a Indianola, Mississippi, nel 1925, da una famiglia di mezzadri in una piantagione di cotone in cui si tramandavano storie ancora fresche della schiavitù. Cresce senza padre e a nove anni rimane orfano di madre. Pochi anni dopo si ritrova a vivere da solo. Come per tanti come lui, la musica è un modo, uno dei pochi, per sfuggire al destino già scritto della stragrande maggioranza dei neri d’America: la povertà del Sud rurale, aggravata dalla barbarie della supremazia bianca, oppure la vita nei ranghi più bassi del proletariato urbano nei ghetti del Nord, dove il razzismo è forse meno brutale ma non certo più facile da tollerare.

A partire dall’adolescenza, Riley per anni affianca al lavoro nei campi di cotone l’attività di musicista apprendista: canta in un quintetto gospel (genere immancabile di formazione dei musicisti neri) e si esibisce suonando il blues (il contraltare laico, e per molti blasfemo, del gospel) nelle cittadine del delta del grande fiume intorno a Indianola. Poi fa il grande salto: nel 1946 si trasferisce a Memphis, che se per chilometraggio non è poi così lontano da casa, culturalmente è tutto un altro mondo. Memphis rappresentava per il Sud quello che Chicago era per il Nord degli Stati Uniti: uno snodo strategico nelle rotte del commercio interno, che soprattutto a partire dal dopoguerra era diventato un polo dinamico e multietnico. Musicalmente parlando, e al pari di Chicago, Memphis era il centro dell’universo, come racconta lo stesso King nell’autobiografia Il blues intorno a me (Feltrinelli, 2003), scritta insieme al giornalista David Ritz: “Memphis era il luogo dove si esibivano i bluesman di grosso calibro, a Memphis c’era Beale Street (…) una città dentro la città. Era esaltante vedere tanta gente affollare la strada, tanta attività, tanta animazione, tanti suoni (…). C’erano tre cinematografi, caffetterie, hotel, banchi dei pegni, negozi di articoli vari e, ovunque, gente che suonava”. Memphis è “la capitale mondiale del blues” ed è lì che King assorbe dai tanti musicisti sulla piazza i segreti della chitarra blues. Per il pubblico di Beale Street, dove si esibisce per strada o in piccoli locali, diventa presto Blues Boy, o B.B., il nome che lo accompagnerà al successo, prima tra il pubblico segregato dell’America nera, poi tra i giovani banchi della controcultura degli anni sessanta, poi nel mondo intero.

La carriera di B.B. King scorre lungo l’asse dei grandi eventi della storia afro-americana del Novecento: la fuga dal Sud rurale e razzista (la cosiddetta “grande migrazione”), il movimento per i diritti civili e la fine, perlomeno giuridica, della segregazione e l’America “post-razziale” di fine secolo e dei primi anni del Duemila. A Memphis, negli ultimi anni quaranta, King alterna esibizioni nei tanti locali intorno a Beale Street con un lavoro da disc jockey alla storica Wdia, la prima radio negli Stati Uniti con programmi condotti interamente da afroamericani, in cui “come un bambino in un negozio di caramelle” ascolta e fa ascoltare i grandi del jazz e del blues che segnano la sua formazione di musicista: Ben Webster, Lester Young, Muddy Waters, ma soprattuto T-Bone Walker, Lowell Fulson, Charlie Christian, Robert Lockwood (l’unico allievo del grandissimo Robert Johnson) e un chitarrista belga di origine gitana che suonava straordinari accordi e progressioni jazz con tre sole dita nella mano sinistra: Django Reinhardt. Quando, nei primi anni cinquanta, e parallelamente alle prime conquiste del movimento per i diritti civili, esplode il rhythm and blues, le barriere che contengono la musica nera (blues, gospel e jazz) nel mondo separato della segregazione iniziano pian piano a sgretolarsi. Artisti neri come Fats Domino, Big Joe Turner e The Chords sfondano nelle pop charts, il mercato discografico dei bianchi, anticipando la rivoluzione, musicale e sociale, del rock and roll. Di questa rivoluzione B.B. King è più che altro spettatore: non ha la presenza scenica né l’appeal trans-razziale di colleghi come Fats Domino o Little Richard. E benché il suo primo 45 giri, Three o’ clock blues, uscito nel 1951 per la Modern Records, raggiunga la cima delle classifiche R&B, i suoi dischi non sfondano tra il pubblico bianco. Per tutti gli anni cinquanta e buona parte degli anni sessanta solca instancabile con la sua orchestra il cosiddetto Chitlin Circuit, il circuito minore (e assai meno lucrativo) di teatri e club frequentati esclusivamente da afro-americani, i cui gioielli erano rappresentati dal Regal a Chicago, lo Howard a Washington e, il più prestigioso di tutti, l’Apollo Theater a Harlem.

Poi, nel 1964, viene la british invasion (la dissacrante carovana di inglesi a malapena ventenni e infatuati dalla musica nera, che questa musica fanno propria e re-importano alla sterminata platea di loro coetanei bianchi d’America) e tutto, improvvisamente cambia. Sollecitata dai Beatles (che, non va dimenticato, si erano formati alla scuola dei grandi rockers neri – Chuck Berry, Little Richard e Fats Domino – e del Detroit Sound) Rolling Stones (estimatori del Chicago Blues di Muddy Waters e Howlin’ Wolf), Animals e tanti altri, l’America bianca improvvisamente apre lo sguardo alla grande tradizione della black music.

Nel 1965, The Paul Butterfield Blues Band, uscita d’esordio dell’omonimo sestetto di Chicago, è il primo album di blues in America registrato da una band bianca. Rispondendo ai giornalisti che gli chiedono dove avesse imparato a suonare in quel modo, il chitarrista Mike Bloomfield, da quel momento celebrato come grande maestro del genere, risponde candidamente: “Ho copiato da B.B. King”. Ai giornalisti stupiti, che di B.B. King non avevano mai sentito parlare, Bloomfield replica: “B.B. King, il fenomeno”. È da questo momento che King approda ai piani alti della popular music americana. Grazie anche a un nuovo manager, Sid Seidenberg, esce dal ghetto del Chitlin Circuit e affronta le platee dell’America bianca. La prima volta è al Fillmore di San Francisco nel 1968, di cui King racconta sempre nell’autobiografia: “Non appena scesi dall’autobus, vidi giovani cappelloni in attesa di entrare in teatro e pensai che avessimo sbagliato indirizzo (…)Vidi (Bill) Graham (notissimo promoter musicale, ndr) e gli dissi: ‘Amico, sei assolutamente sicuro di volermi far suonare in questo posto?’. ‘Ma certo’, rispose Bill (…). Quando arrivò il momento della verità buttai giù un altro sorso e seguii Bill sul palco (…): il pubblico era seduto per terra (…) e una spessa nuvola di fumo dolciastro di marijuana aleggiava nella sala (…) Bill Graham mi presentò: ‘Signore e signori, ecco a voi l’Amministratore Delegato, B.B. King’ (…) Il pubblico si alzò in piedi e mi riservò un fragoroso applauso: per la prima volta nella mia carriera ricevevo una standing ovation prima ancora di suonare”. A questo punto l’America intera sa chi è il suo re del blues.

Nel 1970 B.B. King suggella la raggiunta celebrità con quello che rimane il suo successo maggiore, The Thrill is Gone, una ballata blues con un distinto sostegno di archi prodotta da Bill Szymczyk. Il 45 giri segna una svolta tanto per l’industria musicale, che finalmente accoglie il blues nel mainstream della musica popolare, quanto per la carriera di King, che proprio in quegli anni produce alcuni degli album più importanti: Completely Well (1969), Indianola Mississippi Seeds (1970) e B.B. King in London (1971), disco che coincide con l’avvio dei suoi innumerevoli tour all’estero. B.B. King diventa da quel momento primo ambasciatore del blues nel mondo, esibendosi al ritmo di oltre 300 concerti l’anno davanti a platee che crescono di stagione in stagione. Alla fine degli anni ottanta, gli U2, all’apice del successo, lo celebrano nel bellissimo album-documentario Rattle and Hum, dove si esibisce insieme a Bono & Co. in When love comes to town. Dieci anni dopo, sarà Eric Clapton, anch’egli al culmine della carriera, a omaggiarlo registrando con lui il raffinatissimo Riding with the King, la cui copertina ritrae i due bluesman, maestro e allievo, a bordo di una Cadillac in stile anni cinquanta.

Oggi, a Indianola, un museo a lui dedicato ricorda la sua vita e la sua arte. Ma sono soprattutto gli album live che conservano la testimonianza più viva del suo straordinario impatto scenico e dell’onestà del suo blues, sempre tanto innovativo quanto radicato nella storia di quel genere. Dischi del calibro di Live at the Regal (1965), Live in Cook County Jail (1971) e Live at the Apollo (1991) ci tramandano il meglio di performance sempre dinamiche e raffinate: i vibrati della sua Gibson ES-335, meglio nota come Lucille, le ricche articolazioni orchestrali, una voce che alternava sonorità corpose e sensualità felpata. Fedele alla storia del blues, anche il suo personaggio pubblico fu sempre defilato e antidivistico, consapevole che il blues è arte umile, fatta del duro lavoro che ne evoca le radici: “Mi chiamano il Re del Blues. Ma io non ci credo. C’è un mucchio di gente che sa fare quel che faccio io e molti sono assai più bravi di me. Loro semplicemente non sono me”.

andrea.carosso@unito.it

A Carosso insegna letteratura nord-americana all’Università di Torino

Libri e film

B. B. King, David Ritz. Il blues intorno a me. L’autobiografia di B.B. King, ed. orig. 1996, trad. dall’inglese di Stefano Focacci, Feltrinelli, Milano 2003

B.B. King: The Life of Riley, regia di John Brewer, UK/USA: dvd € 21, Emperor Media, 2012